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Note dalla quarantena

Come state? Se c’è un momento buono per fare questo tipo di domanda, classico stereotipo da convenevole, è proprio questo. Io bene, onestamente, anche troppo. Nel senso che, essendo il classico tipo che è l’esatto contrario di quello che vive per lavorare (“workaholic”), più sto in panciolle, più godo innescando un circolo che per la stragrande maggioranza dell’umanità è vizioso, ma per me è l’esatto contrario nel senso che meno faccio, più mi convinco che il non far niente è una specie di nirvana.

E, incredibilmente, meno faccio, più il tempo passa velocemente. Sono sempre stato convinto che lavorare sia la calamità maggiore che sia capitata all’umanità (se ci pensate bene, quando Dio caccia Adamo e Eva dal Paradiso terrestre li avverte che da quel momento in poi dovranno guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte – e dunque anche le Sacre scritture affermano solennemente che il lavorare è fondamentalmente una disgrazia, in quanto fino a quel momento non avevano fatto un emeritissimo tubo e si erano goduti la bellezza della natura. O no?), per cui, quando dovevo per forza lavorare per guadagnarmi la pagnotta, ho sempre lavorato con straordinaria intensità proprio per accorciare il più possibile la tortura e per finire il prima possibile. Non solo, ma sono sempre stato molto più preciso ed esauriente in quanto dovevo fare, in quanto solo l’idea di dover riprendere a lavorare magari per rifare qualcosa che avevo sbagliato, cioè di dover lavorare due volte per la stessa cosa, mi faceva star male. Il che ha di molto elevato la mia produttività con tutta una serie di conseguenze virtuose per i miei datori di lavoro, in quanto occupavo il mio posto di lavoro e facevo lavorare i miei collaboratori in un lasso di tempo molto breve che poteva permettere a molti altri di usufruire per molto più tempo delle strutture della nostra ditta per fare i loro, di lavori. Per cui, anche se per la morale corrente dovrei sentirmi un grandissimo verme per la mia congenita ed inguaribile pigrizia, in realtà penso che la pigrizia non sia poi questo grande difetto, anzi. Si lavora solo quando serve, si lavora veloce, quando si è guadagnato abbastanza per vivere decorosamente si può passare a qualche altro tipo di attività più appagante, in realtà secondo me la pigrizia è in definitiva la bussola giusta che ti indirizza verso quanto è veramente importante nella vita di ciascuno di noi. Cioè ti fa capire nella sua più squisita sostanza il famoso detto che si lavora per vivere e non si vive per lavorare.

Tutto questo preambolo altamente filosofico che mi attendo non riscuota particolare popolarità, ma che comunque spero che vi faccia perlomeno riflettere su quelli che sono gli stereotipi che ci vengono inculcati dalla culla, per dire che in tempi di quarantena più passa il tempo, meno ho voglia di far qualsiasi cosa che coinvolga un lavoro anche mentale. Prima conseguenza di ciò è che il terzo capitolo della saga sugli schemi dovrà ancora attendere, in quanto non riesco proprio a far girare le cellule grigie alla velocità giusta, per cui scriverei tutta una serie di cazzate. Comunque non temete per la mia sanità mentale, so benissimo quando bisognerà invertire la rotta e rientrare in contatto con la realtà quotidiana. Però ora non è certamente ancora tempo.

E dunque per stavolta solo qualche considerazione di attualità, anzi prima ancora un’osservazione sull’interessantissimo (per me) scambio di domande e risposte fra Llandre e Stefano sulla musica. Tutto quello che posso dire è che, essendo un amante viscerale, emotivo, senza se e senza ma, della musica come massima espressione della creatività e della fantasia dell’essere umano, qualsiasi discorso su di essa mi appassionerà sempre e dunque ben venga qualsiasi discorso in merito su queste pagine. Avete porte più che spalancate, inesistenti. Purtroppo, viste le persone che ne parlano, “count me out”. Come più volte ampiamente detto i miei gusti, e soprattutto la mia sensibilità in merito a quanto desidero avere dall’ascolto della musica, è di un altro pianeta rispetto, per essere chiari, a quanto vuole avere dalla musica un amante del jazz moderno che dal mio punto di vista è una lunghissima solfa di pippe mentali nelle quali si fa a gara a chi ha più tecnica ed inventiva nel trovare variazioni a un tema musicale. Esercizio per me del tutto non interessante in quanto a me interessa fondamentalmente la musica, cioè il tema in se stesso e che emozioni può offrirmi e non le variazioni su di esso. Come può capire facilmente chiunque che se ne intenda un po’ di musica, ed ora dirò una bestemmia che farà svenire più di qualcuno, a me di Bach e della sua musica non potrebbe fregarmi di meno. Per dire vi do tutto Bach per le prime battute di “Eine kleine Nachtmusik” di Mozart o per la sua marcia turca. Altrettanto più che ovviamente per le prime battute della Quinta di Beethoven. O, se volete, volendo essere proprio estremo, vi do tutto Bach in cambio di una esecuzione a cappella di una meravigliosa voce femminile (essendo, appunto, una canzone femminile) della più bella canzone popolare mai composta, l’irlandese Danny Boy. Volendo darvi il decisivo colpo di grazia (già vi vedo tutti a praticare esorcismi per farmi rinsavire) dirò che per me il prototipo della musica che vorrei ascoltare in Paradiso è il concerto dal vivo di Carl Perkins a Londra nel 1985 in compagnia di George Harrison, Ringo Starr, Eric Clapton, Rosanne Cash e vari altri musicisti di eccezione. O, se volete, il Black e White Night di Roy Orbison un anno dopo assieme a Bruce Springsteen, Tom Waits, Elvis Costello, Jackson Browne con house band James Burton e tutti gli altri che hanno suonato per sette anni dal vivo con Elvis e con addirittura Bonnie Raitt e k.d.lang a fare da coriste. A proposito, dire che qualsiasi jazzista dà giri di pista anche al più bravo dei rockettari mi sembra un’affermazione semplicemente ridicola nella sua elitistica autoreferenzialità, sicuramente estremamente snob. Siete proprio sicuri che Jerry Lee Lewis, come pianista, pur suonando solo rock and roll e country sia inferiore ai vostri fenomeni del jazz? Io assolutamente no, semmai, prendendo in esame solamente il talento puro, sono propenso a credere esattamente il contrario.

Dunque per concludere scrivete a parlate tranquillamente di musica, anzi per favore, fatelo più spesso, ma per quanto mi riguarda quanto scritto sopra è la mia ultima parola.

Come detto all’inizio l’inattività fisica e anche intellettuale non mi impedisce però di pensare e di fare considerazioni sulla realtà che stiamo vivendo in questo momento. La prima cosa che mi viene in questo è la famosissima e amarissima frase che Charlie Chaplin pronuncia alla fine di M. Verdoux: “Un morto è un omicidio, 10 morti una strage, 100 mila morti una statistica.” Stiamo contando i morti dell’epidemia provocata dal virus dell’ennesima epidemia proveniente dalla Cina (come la spagnola che fece strage durante la prima guerra mondiale, o l’asiatica del ’57, o poi le varie aviarie) senza che qualcuno si prenda la briga di raccontare le storie individuali strazianti che stanno dietro a questo macabro conteggio. Certo il farlo ci turberebbe in modo intollerabile, ma forse ci farebbe riflettere che forse è meglio non scherzare e che non prendere questa malattia sarebbe sicuramente molto meglio. E venire alla conclusione by the way che Boris Johnson sembra, ed era assolutamente impossibile ipotizzarlo visto l’ineffabile paragone, ancora più idiota di Donald Trump.

Un’altra cosa che salta subito agli occhi è come la percezione dell’italiano medio dei fatti che stanno accadendo sia cambiata in modo radicale in pochissimi giorni. E' incredibile vedere gli italiani fare pazienti file mantenendo la distanza di sicurezza senza assolutamente fare i furbi, senza prevaricare, senza dare la minima impressione di essere, appunto, italiani, cioè coloro che, come dicono gli americani, conoscono ogni pagina del libro, anzi il libro lo hanno scritto loro, dei sotterfugi e delle gherminelle. E uno si chiede come mai sia possibile una cosa del genere, di punto in bianco. Dal mio punto di vista il comportamento di un qualsiasi popolo della terra è diretta conseguenza della storia del popolo stesso. L’Italia è stata per quasi due millenni terra di conquista, di padroni che cambiavano in continuazione, padroni che venivano da fuori e si comportavano, perché lo erano, da conquistatori e oppressori, e dunque l’unico modo di sopravvivere era quello di fare finta di obbedire, ma in realtà di fare a gara a chi fosse più furbo, il potere o la gente semplice. In definitiva o fregavi o restavi fregato. E anche quando l’Italia è diventata indipendente (un battito di ciglia fa, rispetto alla storia) lo è diventata grazie all’annessione del resto dell’Italia al Regno dei Savoia, cioè dopo un’ultima e definitiva conquista “straniera”. Da ciò, secondo me, la totale assenza nella coscienza degli italiani di un qualsiasi senso civico. Non c’è popolo al mondo che più degli italiani sia lontano dall’idea che lo Stato siamo noi e non certamente qualche potere lontano e malevolo. Fino a che, come dicono i serbi, “il diavolo non si porta via lo scherzo”, quando cioè la propria sopravvivenza non dipende più da quanto dice e ordina il potere, ma dipende solo ed esclusivamente dai comportamenti privati. Secondo me un’epidemia, dunque una cosa del tutto indipendente da qualsiasi governo per quanto illuminato e vicino alle esigenze della gente possa essere (cosa mai successa in Italia, se non forse nell’immediato secondo dopoguerra), è l’evento perfetto per fare riscoprire agli italiani che il vivere nel rispetto del vicino vuol dire vivere anche nel rispetto di se stessi, non solo, ma che avere rispetto del prossimo è un bene anche materiale per se stessi, il che è la condizione imprescindibile per qualsiasi senso della comunità uno possa avere

Gli italiani, con tutti i difetti che possono avere (ne parlo apposta in terza persona per far capire che guardo all’Italia il più possibile da fuori, da elemento della minoranza slovena), e ne hanno di giganteschi, sono comunque un popolo intelligente, capace di ogni cosa nel male, ma anche nel bene, in realtà geniale che ha soprattutto capito cosa sia l’essenza della vita (riallacciandomi a quanto scritto all’inizio), e i concerti dai balconi sono la dimostrazione più lampante di ciò (a chi poteva venire in mente un’idea simile se non agli italiani?), e che dunque sa, quasi per istinto, in ogni momento quale sia la cosa da fare, facendo magari il mona in tempi di vacche grasse, facendosi abbindolare dal populista di turno, ma che sa altrettanto bene quando le cose si fanno serie e allora si comporta in modo serio. Quando questa cosa finirà, e sono sicuro che in Italia finirà molto prima che in tutto il resto d’Europa, che questa cosa degli italiani ancora proprio non l’ha capita e dunque guarda all’Italia sempre e comunque con sufficienza, sarà interessante vedere che lezione avranno tratto gli italiani da questa vicenda. Qui purtroppo il mio ottimismo svanisce subito. Se c’è un popolo al mondo che non ha mai tratto insegnamenti da quanto gli è successo, questo è proprio quello italiano. Del resto quando si è oppressi e sottomessi dimenticare il prima possibile è una fortissima forma di difesa. Purtroppo diventa una terribile maledizione quando da quanto vissuto si dovrebbero trarre lezioni da tramandare in modo quasi genetico ai posteri.