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Per toccare un po' di attualità vorrei cominciare con una citazione del commento di un giornalista amico mio sull'ultima partita di Eurolega dell'Armani Milano contro il Fenerbahce. Devo dire che sono molto d'accordo: "L'Armani Milano era attesa a una partita fondamentale, assolutamente da vincere per poter sperare nei playoff, contro i leader in classifica del Fenerbahce Istanbul, presentatisi però a Milano senza tre giocatori fondamentali quali Vesely, Lauvergne e Sloukas. Quelli che sono arrivati però sono bastati e avanzati per battere una Milano totalmente sconclusionata, senza il minimo straccio di idea di cosa fare in campo, ma soprattutto con giocatori, Mark James in testa, che sembravano in campo solo perchè costretti, con un linguaggio del corpo che comunicava miglia lontano che avrebbero voluto essere in qualsiasi altro posto meno che lì. Tecnicamente è stata una mattanza fra una squadra che sapeva benissimo cosa fare e l'altra che si affidava a lampi individuali, Nunnally e poi ogni tanto Jerrells, per il resto era caos disorganizzato (Sergio Tavčar, TG sportivo di TV Capodistria di venerdì 30/3)".

Per quanto riguarda l’NCAA ditemi solo quando termina, così che posso pianificare il ritorno alla normalità per ricominciare a parlare di basket. Nell’attesa vorrei finalmente dire la mia sul tema a suo tempo introdotto da Llandre, e cioè su cosa ne penso io dell’insegnamento in genere.

Lasciate che mi presenti, come diceva il Prologo di una famosa e meravigliosa opera del realismo italiano. Come più volte detto mio papà era professore di inglese, mia mamma maestra elementare e anche di pianoforte, per cui di insegnamento in casa ho sentito parlare e discutere da quando sono nato. Le tematiche che sentivo dibattere mi hanno sempre interessato, anche perché vedevo mamma e papà che discutevano con passione, e le cose fatte con passione che riguardano i rapporti umani mi hanno sempre affascinato. E’ solo normale che, appena ho potuto, cioè appena deciso che giocare a basket non faceva per me, in quanto avrei al massimo potuto diventare un giocatore medio di serie D, cosa che proprio non mi interessava, in quanto essendo pigro e odiando lavorare a vuoto, non vedevo perché avrei dovuto farmi un sedere come un barile per ottenere un risultato tanto magro, mi sono dedicato alla mia passione di fare l’istruttore prima e l’allenatore poi. Il mio primo allenamento l’ho diretto all’età di 18 anni e 10 mesi e l’ultimo vero (con una squadra cioè fatta e assemblata da me con giocatori principalmente da me allevati e che dunque potevo controllare perché facessero le cose in campo a modo mio, cioè giusto, scusate l’immodestia) circa a metà anni ’90, quando vincemmo un campionato di prima divisione dopo uno spareggio, salvo poi sentirsi dire che l’anno dopo non avremmo potuto giocare in Promozione perché non c’erano i soldi. In quel momento ovviamente la motivazione svanì e da allora in poi non ho in realtà più allenato seriamente. In questo lasso di tempo ho allenato esattamente tutto il possibile: ragazzi e ragazze, totali principianti e giocatori già affermati, minibasket e senior in lotta per la promozione in Serie C con in mezzo esattamente tutte le possibili fasce di età e capacità, insomma ho un’esperienza esattamente a 360 gradi che mi vanto di essere uno fra i pochi, almeno dalle mie parti, a possedere. Parlando di insegnamento ho nel curriculum anche due anni di supplenza annuale in una scuola media superiore (’85 e ’86, epoca nella quale, a causa dell’iperinflazione che flagellava la Jugoslavia, la mia paga era, tradotta in lire, un terzo circa di quanto adesso prendono con il reddito di cittadinanza), quando ho insegnato il primo anno fisica e il secondo matematica.

Mi sono dilungato su questo tema per mettere bene le carte in tavola e perché ciascuno possa farsi un’idea sul come e in che contesto abbia sviluppato le mie opinioni e poi convinzioni (quando le opinioni e le ipotesi vengono puntualmente, senza eccezioni, confermate dall’esperienza, penso sia normale diventino convinzioni) e dunque possa fare la tara giusta a quanto sto per dire.

Parto da una frase che mi ripeteva sempre mio padre e, più passano gli anni e più si accumulano le esperienze, più mi sembra fondamentale: “Se vuoi avere successo come insegnante devi assolutamente fare in modo che gli studenti si appassionino o almeno si interessino alla tua materia. Se non ci riesci, tutto quello che spieghi è totalmente inutile, perché entrerà loro in un orecchio e se ne uscirà subito dall’altro. Se invece ci riesci, hai già fatto il tuo lavoro. Non occorre che insegni, saranno gli stessi studenti che vorranno sapere e studieranno da soli senza che tu imponga loro nulla. Il tuo unico compito sarà nel dirigerli nella direzione giusta facendo loro capire quali siano le cose fondamentali sulle quali lavorare.”

Sembra logico o addirittura ovvio, a leggerla così. E invece, sempre più passano gli anni, sempre più mi sembra che questo aspetto, più che fondamentale assolutamente dirimente, venga totalmente ignorato nel nome di una sempre più deleteria burocratizzazione del lavoro stesso dell’insegnamento, o per meglio dire nel tentare di valutare gli insegnanti secondo schemi che con l’insegnamento in sé non c’entrano un’emerita mazza. In sostanza tutta la baracca oggidì funziona secondo la perversa logica che a sapere le cose deve essere l’insegnante. Più cose sa, più sarebbe bravo. Sarò anche iconoclasta, ma a me dell’erudizione dell’insegnante non potrebbe fregarmi di meno. L’insegnante, in ogni campo, nel mio identikit dovrebbe essere valutato partendo da tutti altri aspetti. Comincio: non esiste insegnamento senza carisma. Gli studenti devono per prima cosa capire che quello che si trovano davanti è capace nel sapere come trattarli e soprattutto come farsi rispettare. Per ottenere questo secondo me il modo migliore è di essere coerenti, una specie di macchina che, di fronte a comportamento uguale, reagisce in maniera sempre esattamente uguale. Quando uno studente percepisce che un insegnante ha una preferenza per qualcuno e un’avversione per un altro, sei finito. Puoi chiudere. Da quanto detto ne consegue immediatamente che un insegnante che non sia anche minimamente uno psicologo, non uno dei psicopatici studiati che vanno a studiare psicologia per curare se stessi e poi imperversano nelle varie scuole quando chiamati dispensando stupidaggini da libro a destra e manca, ma uno psicologo vero, una persona che entra in empatia con il prossimo sapendo cogliere quanto sta dietro a una frase o a un particolare linguaggio del corpo per comportarsi di conseguenza (esempio: se uno studente un giorno è particolarmente nervoso per fatti suoi, che ne so, si è lasciato con la ragazza(-o), è inutile, anzi assolutamente controproducente attizzarlo ancora di più magari solo per dimostrargli chi comanda in classe – lascialo stare, poi te ne sarà grato quando qualche giorno dopo gli domanderai, in modo del tutto casual: “tutto bene ora?”), ripeto che non sia uno psicologo, e più lo è meglio è, non potrà mai insegnare. Tanto per fare un esempio di quanto sto dicendo vorrei sterzare un momento verso il basket e dirvi quanto ho maturato per esperienza nei confronti dell’atteggiamento da tenere nei confronti di una squadra maschile rispetto ad una femminile. Ovviamente lo stesso accade a scuola se insegni in una classe a larga maggioranza maschile, o femminile. Per inciso, poveracci in questo caso gli esponenti delle relative minoranze. Per loro è sicuramente un inferno. Per cui, per favore, fate in modo che le classi siano o unisex o perfettamente miste. Avere a che fare con un gruppo maschile è molto più facile. Secondo la mia teoria, che spiegherebbe molto bene il fenomeno che sto per raccontarvi, nella nostra storia ancestrale, che risale a più di un milione di anni fa e che sicuramente abbiamo stratificato in qualche modo nel nostro DNA, i maschi erano per ovvie ragioni fisiche deputati a procurare il cibo, per cui andavano a caccia. Per cacciare con successo l’organizzazione deve essere perfettamente piramidale di tipo militare con un leader, alcuni suoi fidati luogotenenti, graduati e massa. E infatti in ogni gruppo di maschi questo tipo di struttura si ripete puntualmente. Non esiste gruppo maschile coeso che non abbia un leader con i suoi fidati collaboratori che coordinano l’attività del gruppo. Provate un semplice esperimento: quando avete davanti un gruppo di maschi e dovete prendere una decisione che riguarda il gruppo stesso chiedete un parere al gruppo senza rivolgervi a nessuno in particolare. Inevitabilmente gli sguardi di tutti convergeranno verso uno di loro, che normalmente a vostra sorpresa è uno che proprio non pensavate potesse essere lui, che vi risponderà a nome di tutti proponendo la sua soluzione. Quello è il leader. Normalmente basta dargli ascolto e fare quanto propone che il gruppo è già vostro. Se siete d’accordo con il leader, siete d’accordo con il gruppo. E se avete carisma e capacità sufficienti, se cioè il leader si renderà conto che siete una persona di cui fidarsi che ha più esperienza e a cui dunque può essere d’aiuto chiedere un  suggerimento o un consiglio, con quel particolare gruppo non avrete mai alcun problema.

Tutt’altro discorso per quanto riguarda le ragazze. Sempre andando alla notte dei tempi le donne rimanevano nelle grotte e avevano tutto un altro insieme di mansioni. Chi lavava, chi cuciva, chi badava alla prole, chi cucinava e via dicendo. E’ solo ovvio, almeno dal mio punto di vista, che le femmine lavorassero secondo un tipo di organizzazione orizzontale con cellule indipendenti l’una dall’altra però sempre nell’insieme di una coabitazione forzata. E puntualmente quando avete a che fare con un gruppo di femmine questa cosa viene inevitabilmente a galla. Un gruppo di ragazze è sempre strutturato a clan con cellule di amiche per la pelle che di solito non superano mai il numero di tre, massimo quattro elementi, e che poi sono costretti a coabitare in squadra. Per cui il compito del coach è veramente improbo. E’ assolutamente vietato che uno dei clan abbia la sensazione di essere trascurato dal coach, perché ne va della loro dignità. E addirittura sono anche gli altri clan favoriti che vedono di pessimo occhio questa discriminazione. Le ragazze sono molto più sensibili, ma anche molto meno dirette nel dire quello che pensano, per cui, se uno non ha le antenne tipo radiotelescopio, può capitarti fra capo e collo che improvvisamente il gruppo ti si rivolga contro e si disgreghi senza che tu avessi il minimo sentore che una cosa del genere potesse accaderti.  

Ecco, questo è secondo me un  esempio calzante delle vere cose che importano in un rapporto insegnante-allievi. Nel momento stesso in cui tu stabilisci un rapporto proficuo con il gruppo e quando senti che il gruppo si fida di te, perché sei giusto, severo magari, ma giusto e imparziale, in quel momento, e solo in quel momento, puoi cominciare a pensare di insegnare. Secondo l’aurea massima di mio padre il compito primario è quello di suscitare interesse. Porto in merito ancora una volta un’esperienza personale. Insegnavo matematica, materia normalmente ostica se non odiata (l’anno che ho insegnato fisica non ho avuto problemi: è bastato far capire quanto la fisica sia insita nelle cose che facciamo ogni giorno per suscitare subito un notevole interesse). E allora da buon telecronista sportivo mi sono inventato il torneo di classe. In palio nessun voto negativo, ma solo note di merito. Quando studiavamo i polinomi e poi le equazioni annunciavo con largo anticipo che il giorno tal dei tali ci sarebbe stato il torneo. Arrivato in classe (tutta maschile per fortuna), per fare un po’ di scena, portavo una boccia di vetro nella quale ogni studente metteva un foglietto con il suo nome e in pompa magna con grande suspence sorteggiavo il tabellone tennistico a eliminazione diretta. Già lì succedevano cose interessanti: “porca miseria, ma proprio con lui dovevo capitare!”, che ti facevano capire anche il polso della classe su chi loro in prima persona ritenessero bravo e chi invece una schiappa, e poi partiva il torneo. La prima coppia si poneva ai due lati della lavagna, divisa verticalmente a metà da una grossa linea, in alto in mezzo scrivevo velocemente l’equazione da risolvere, davo il via e chi finiva per primo passava il turno. Così via via fino ad arrivare alla finale (giustamente al meglio dei tre set) per la quale, soprattutto quando ad arrivarci c’era uno che loro consideravano un outsider, c’era un vero e proprio tifo da stadio. Sarà stato un mezzuccio, ma vi garantisco che più si avvicinava il giorno del torneo, più loro erano attenti e studiavano. Perdere, magari subito, non piace a nessuno. Anche se si tratta di equazioni matematiche. 

In genere le competizioni, soprattutto se avete a che fare con i maschi, sono sempre salutari, anche e soprattutto se siete istruttori sportivi. Mi sono sempre meravigliato perché soprattutto gli istruttori dei giovanissimi, in ogni sport, non vi ricorrano in modo continuativo. Per me solo la competizione, in se stessa, senza premi in palio, può stimolare un ragazzo a dare il meglio di se stesso e soprattutto a impegnarsi nel migliorare per non perdere la prossima volta. Parlando di basket, gli allenamenti dei giovanissimi dovrebbero, secondo me, essere basate su queste competizioni, di tiro, di slalom in palleggio, di precisione di passaggio da lunga distanza e via dicendo. I ragazzi si divertono e imparano. Cosa si potrebbe volere di più?

Avrei ancora milioni di cose da dire, ma per ora penso già di avervi rotto abbastanza. Per cui finisco dicendo semplicemente una cosa: per insegnare bene bisogna essere pedagoghi, sapere cioè come si fa a motivare gli allievi affinché si rendano conto che studiare è bello, divertente, bisogna in  definitiva dare loro gli strumenti perché possano imparare da soli le cose che li interessano e poi quelle che saranno utili per la loro vita professionale. Tutto il resto si trova sui libri o su Internet.