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Tanti spunti interessanti. Intanto alcune precisazioni sul ciclismo: capisco perfettamente quanto scrive Franz, anche se onestamente non sarei così lapidario sui suoi giudizi, soprattutto avendo a mente il carattere degli sloveni che sono notoriamente molto mal disposti verso chi “ha” e vorrebbero vederlo ritornare il prima possibile nell’ambito di coloro che devono combattere giorno per giorno per poter avere un tetto e di godere di due pasti quotidiani. Per cui il fisco è particolarmente mal disposto verso chi è palesemente benestante. E inoltre per onor di cronaca bisogna subito rimarcare che Pogačar, oltre ad aver sempre risposto presente al richiamo della nazionale ed aver preso parte sempre e comunque ai campionati sloveni, non solo, ma per esempio quest’anno ha preso parte al Giro di Slovenia proprio per rimarcare il suo attaccamento ai colori nazionali, è inoltre attivamente coinvolto con la sua presenza di testimonial, ma soprattutto con cospicue e continue donazioni di materiale tecnico, nell’attività del suo club ciclistico di origine. Per il resto niente da dire, mi avete stroncato. Il parallelo che ho tracciato con la coppia Coppi-Bartali non regge. Chiedo scusa, ma a mia parziale scusante va il fatto che comunque vedo una certa qual similitudine nell’accostamento giovane-anziano e in quello fra uno un po’ sfigato e uno comunque fortunato (nel suo campo di lavoro, non certamente nella vita).

Anni fa, precisamente nel ’94, (o ’93?), quando il Giro fece tappa in Slovenia a Kranj, per lanciare l’evento la TV slovena pensò di andare a fare visita a Bartali per avere una sua testimonianza sull’importanza della corsa e anche per sentire dal vivo uno dei più grandi campioni della storia del ciclismo. E dunque un giorno andammo in spedizione a casa di Bartali, a Ponte a Ema sulle colline sopra Firenze, il giornalista di Lubiana, io per Capodistria, più ovviamente regista, operatore, fonico e autista. Praticamente fummo con lui dall’ora di pranzo fino a tarda sera e fu un’esperienza straordinaria. Intanto venne lui in persona con la sua signora ad accoglierci all’appuntamento che avevamo fissato in un ristorante del paese, dove mangiammo prima di andare a casa sua. L’impressione fu subito grandiosa: un signore anziano umile, spiritoso, intelligente che tutto avresti detto meno che fosse stato un’icona sportiva che secondo molti salvò anche l’Italia da una guerra civile, assieme alla moglie che vedevi subito erano una coppia di quelle che, quando le vedo che si vogliono ancora un sacco di bene dopo tanti anni e che palesemente vivono quasi in simbiosi, mi commuovono quasi fino alle lacrime. Forse perché sono la testimonianza vivente che il matrimonio che sognavo dai miei anni più teneri esiste veramente, anche se a me non fu mai dato di sperimentarlo e poi di viverlo. Ma lasciamo stare queste cose tristi. Certamente per me vale sempre il detto che lessi tanti anni fa, e che cioè il celibe è colui che ha preso troppo sul serio il matrimonio.

Bartali fu spettacolare nell’intervista e infatti, solo citando le sue risposte più “pregnanti”, misi assieme un mega servizio, quasi un documentario, di 20 minuti che andò in onda in Zona sport. Oltre alle solite cose sul dualismo con Coppi (molto pompato dai media, loro si rispettavano profondamente e Coppi ebbe sempre, almeno così diceva Bartali, ma non ho mai avuto il minimo dubbio che fosse veramente così, un atteggiamento verso di lui quasi di allievo nei confronti del maestro che quasi quasi ha pudore e disagio quando lo batte in corsa) e sulle considerazioni su come fosse il ciclismo nella loro epoca, ovviamente una cosa del tutto diversa da quanto è oggi, a un dato momento cominciammo a parlare di doping, o per meglio dire fu lo stesso Bartali che affrontò l’argomento, anche per mettere molti puntini sulle “i”. Secondo quanto disse lui, e anche qui non ho alcun problema nel credergli, proprio perché non avrebbe avuto alcun interesse a tacere la verità, il doping cominciò in maniera massiccia dopo la seconda guerra mondiale. Prima c’erano stati tentativi per lo più pericolosissimi, dalla stricnina di Dorando Pietri a Londra nel 1908 in poi, ma dopo la guerra ci fu il salto di qualità quando fu disponibile in quantità illimitate l’amfetamina che avevano portato in dosi massicce i soldati americani in Italia dopo lo sbarco del ’43 con conseguente risalita dello stivale. Era una cosa molto meno pericolosa, ma soprattutto molto più a portata di mano, rispetto a quello che si prendeva prima. E infatti, come disse Bartali, il prenderla in dosi massicce era assolutamente normale e nessuno, né stampa né tifosi, aveva niente da dire in merito. Se uno vinceva grazie a una “bomba”, come la chiamavano all’epoca, più efficace di quella usata da altri, nel senso che lo faceva stramazzare un metro dopo l’arrivo e non un metro prima, bravo lui e peggio per gli altri. Il punto è che all’epoca aiutarsi chimicamente per migliorare la prestazione sportiva sembrava una cosa del tutto lecita e ovvia. Quando la percezione, anche nell’opinione pubblica, cominciò a cambiare è difficile dirlo. Io sono abbastanza anziano da ricordarmi che da piccolo (avrò avuto 8 anni) leggevo che nessuno si scandalizzava quando a fine stagione Jacques Anquetil si ritirava in una clinica per un paio di settimane per operare una totale ripulita del sangue da tutte le porcherie che aveva preso durante la stagione agonistica. Insomma tale quale quello che faceva Keith Richards assieme a tanti altri drogati negli anni successivi. Personalmente penso che la percezione che il doping non fosse proprio una gran cosa fu quando ci fu il dramma della morte di Simpson sul Mont Ventoux (’67?) e allora tanta gente cominciò a chiedersi se valeva la pena rischiare la vita per ottenere a qualsiasi costo un risultato sportivo. Ma la cosa più importante secondo me fu quando il doping si diversificò, furono trovate sempre nuove sostanze che offrivano una sempre più variegata possibilità di scelta, e dunque il tutto divenne una corsa a chi fosse più furbo e avesse l’intruglio migliore nascondendolo gelosamente agli altri. Fu un salto concettuale a 180 gradi: prima il doping alla luce del sole presupponeva in sostanza un’equità competitiva: le carte erano quelle e vinceva chi sapeva giocarle meglio. Quando però cominciarono a proliferare tanti assi nascosti nelle maniche il gioco non resse più. E cominciò la lotta al doping (Walter dice una cosa tanto ovvia quanto misconosciuta: come i pompieri arrivano quando divampa il fuoco, mai prima – Minority Report è solo un film -, è solo ovvio che l’antidoping combatta il doping quando si manifesta, e che dunque il doping sia sempre un passo avanti è semplicemente una banale tautologia) e ciò non nel nome di un peloso senso di responsabilità verso la salute degli atleti (immaginarsi quanto agli organizzatori freghi la loro salute, loro vogliono lo spettacolo e fare soldi), che è la solita balla con la quale abbindolano i gonzi, ma semplicemente per fare in modo da avere equità competitiva, che cioè non ci sia uno più furbo che vince perché riesce a fare di nascosto cose che gli altri non sono capaci di fare. Che è esattamente quello che faceva Armstrong che infatti, anche se troppo a posteriori, è stato marchiato dall’infamia (come del resto Pantani, quando vinse al santuario di Oropa una tappa che secondo me non avrebbe dovuto vincere, chissà come il giorno dopo gli trovarono l’ematocrito troppo alto – e il giorno prima? Era regolare? Ma andiamo!) proprio perché alterava l’equità competitiva.

Questa ricostruzione, che al netto di tutte le sviolinate retoriche che si usano in questi casi mi sembra difficilmente confutabile, mi ha fatto sempre pensare che in realtà il doping viene combattuto sempre e soltanto quando altera l’equità competitiva. Un fatto secondo me da tenere bene a mente quando si fa la tara ai fatti che si svolgono davanti ai nostri occhi. C’è però secondo me un’altra cosa molto importante di cui tenere conto, e cioè che in tutti questi ultimi anni la ricerca medica e farmacologica ha fatto passi avanti giganteschi (tanto da trovare un vaccino valido anti-Covid in tempi rapidissimi, ma questo è un altro discorso), e dunque secondo me il limite fra quello che è doping e quello che è invece un legittimo aiuto medico sta sempre più sfumando. Per dire: io ricercatore medico trovo una sostanza che, non so, mi invento, funge da catalizzatore del tutto innocuo in processi metabolici o di produzione di ormoni, e che dunque fa sì che le mie prestazioni siano più performanti, e la consiglio ad un atleta. E’ doping o no? Secondo me no, assolutamente, ma qui la discussione è aperta. Nell’ottica di cui sopra potrebbe legittimamente essere considerata doping se la scoperta fosse tenuta nascosta e offerta solo dietro congruo pagamento ad una sola, poniamo, squadra professionistica. Quando questa scoperta invece dovesse essere pubblica, non vedo cosa ci possa essere di illecito.

In questo quadro si inserisce secondo me in modo più che comprensibile la constatazione fatta da qualcuno che, all’apparenza paradossalmente, ci sia molto più doping nelle categorie giovanili che non ai massimi livelli. Se vale quanto detto da me sopra si può ipotizzare che nelle categorie inferiori anche gli staff medici e di supporto (sempre che ci siano) siano molto meno capaci, per cui continuano a dettare legge i vecchi stregoni abituati ai metodi d’antan, mentre quando si sale di livello e si arriva a squadre Pro Tour con budget da svariate decine di milioni di euro il supporto medico-farmacologico diventi di alto livello e che dunque di vero doping in realtà non ci sia neanche tanto bisogno. Chiaramente nessuno dice che più si va in alto più puliti sono, semplicemente voglio dire che più si va in alto, più sanno come farlo bene. E soprattutto in modo da non rovinare i propri investimenti accorciando in modo drastico la carriera dei corridori. In definitiva penso che sia interesse delle squadre di vertice avere atleti dalla più lunga carriera possibile e che dare loro instant doping che magari li fa vincere in una stagione per poi crollare per il resto della carriera sia totalmente controproducente.

Ed è proprio così che io giudico i corridori e gli atleti in genere. C’è un esempio davanti agli occhi di tutti di un corridore italiano che dopo aver fatto fuoco e fiamme da giovane ora non va più neanche a spingerlo e ha infatti annunciato la fine della carriera. Sono forse troppo malizioso nel supporre che a suo tempo abbiano esagerato con gli aiutini (fra l’altro a un dato momento appena si muoveva si spaccava qualcosa)? Ci sono tantissime giovani speranze che vanno come folgori da giovani e che poi spariscono quando passano fra i grandi. E ci sono invece corridori come Pogačar o Van Aert o Van der Pool che invece di anno in anno vanno più forte, ma che soprattutto vanno forte sempre, anche quando non sono perfettamente in forma. Io sono perciò convinto fermamente che siano, a parità di appoggio medico rispetto a tutti gli altri, semplicemente molto più forti e capaci. E dunque accusare Pogačar di doping, mentre invece non si dice niente di coloro che preparano un evento a stagione nel quale vanno come missili, mentre per il resto si staccano sul primo cavalcavia (non so, un nome a caso, Alaphilippe, o a suo tempo lo stesso Froome), mi da francamente molto fastidio. Sempre nell’ottica del business immaginatevi che disastro sia per tutta l’industria ciclistica mondiale il fatto che i due migliori corridori attuali siano due sloveni (mercato da centro storico di Milano), mentre non ci sono francesi, gli spagnoli con Valverde vecchio sono abbastanza alla frutta, dell’Italia non parliamo, della Germania nemmeno, dagli Stati Uniti in questi ultimi tempi arriva solo folclore, e dunque le bici e tutti i costosissimi e secondo me inutili accessori a chi li vendono? Per cui sono fermamente convinto che, se solo fosse stato possibile trovare o Roglič o Pogačar solo vagamente sospetti di doping, lo avrebbero già fatto, il prima possibile, con immediata susseguente smerdata mediatica. E infatti, controprova, di Van Aert e Van der Pool nessuno parla né li discutono. Sono un belga e un olandese e dunque è solo normale che siano forti. L’unica cosa che temo fortemente è che prima o poi per disperazione non mettano in piedi una cospirazione tipo Schwatzer (o per restare nel ciclismo, tipo Merckx ’69 al Giro). Che abbiamo visto funziona perfettamente.

Curiosamente il tema dell’equità competitiva entra fortemente in ballo anche nell’ultimo argomento interessantissimo che avete toccato e cioè il vostro coinvolgimento di spettatori nelle gare paraolimpiche. Ieri mia nipote ha avuto la grazia di venirmi a trovare e siamo venuti casualmente a parlare di Paraolimpiadi. A un dato momento mi dice: “Ma zio, quando guardo le gare vedo uno senza un braccio, uno senza ambedue le braccia, un altro senza i due avambracci, lo stesso per le gambe, e allora dimmi: secondo che criteri li fanno gareggiare assieme uno contro l’altro?”. Già. E’ proprio questo il punto. Semplicemente manca l’equità competitiva e dunque è impossibile per uno spettatore appassionarsi e magari fare il tifo per qualcuno. O meglio, si fa sempre il tifo per quello più carente di arti (scusate la brutalità), ma è solo ovvio che quello non potrà mai vincere. Per cui si segue la gara forse con curiosità, ma è impossibile appassionarsi. Lo stesso per i vari handicap. Ipovedenti, va bene. Ma quanto? Farà sì la differenza vedere solo ombre o magari anche riconoscere le fattezze?

Ecco, la cosa più brutale e scorretta l’ho già detta, per cui da qui in poi non posso che redimermi. Sia chiarissimo a tutti che ritengo lo sport per disabili una formidabile opportunità per questa gente di trovare un senso alla loro vita e che le battaglie che affrontano sono straordinarie e meritano tutto l’entusiasmo possibile, anche perché noi che abbiamo la fortuna di avere tutte le nostre cose ancora al loro posto non potremo mai veramente capire cosa possa significare e che trauma possa essere ritrovarsi di punto in bianco senza un arto o confinati in carrozzina. E dunque le Paraolimpiadi sono uno straordinario strumento di civiltà e dobbiamo tenercele ben strette per la loro fenomenale importanza. Però non credo che debba essere criminalizzato chi, come Roda o me o mia nipote, non guarda le gare. Dal punto di vista agonistico sono in realtà insignificanti. La cosa fondamentale è un’altra, che cioè tutta la gente che vi partecipa ha passato le pene dell’inferno e che solo trovandosi lì ha potuto esprimersi e trovare un campo di battaglia per affermarsi, superare i momenti più tragici e ritornare alla vita. La gara è perciò per ognuno di loro in sostanza una competizione contro se stessi e contro i propri limiti, e in definitiva chi vince non ha particolare importanza. Ottimo, magnifico, ma io da spettatore in tutto questo cosa c’entro?

Del resto anche qui c’è una controprova che taglia la testa al topo (giusto, Stefano?). Per esempio ho guardato più volte intere partite di basket in carrozzina (senza ascoltare la telecronaca, come sempre in questi casi grondante pietismo da quattro soldi che, sono sicuro, i primi a disprezzare sono i giocatori stessi) prendendolo come uno sport a se stante, e dunque tentando di trovare il senso del gioco, di come fare gli schemi più giusti per affrontarlo al meglio, e ho provato a tentare di capire quali fossero le doti individuali più importanti per primeggiare. Mi sono, ebbene sì, appassionato. Come mai? Perché semplicemente c’è equità competitiva e tutti sono sullo stesso piano (o quasi, ma sono dettagli tecnici che non inficiano il discorso generale), per cui si tratta di una cosa “vera”, in un certo senso obiettiva e dunque interessante. Come mi ha affascinato il calcio per ciechi che è veramente meraviglioso guardare tentando vanamente di capire come possa gente che non vede giocare, e bene, con logica, un gioco di squadra che prevede collaborazione, passaggi al compagno libero e tiri in porta. E alla fine non puoi che rimanere meravigliato davanti alla dimostrazione di cosa possa fare un essere umano che è privo del senso più importante di tutti. E l’atletica in carrozzina? Qua già siamo su un terreno più instabile. Purtroppo ci sono le carrozzine e il mio sospetto è che uno su una carrozzina Mercedes o Red Bull sia più competitivo di uno che corre su una carrozzina Ferrari. Ma forse è cercare troppo il pelo nell’uovo.