Questo sito utilizza cookie tecnici, anche di terze parti. Per ulteriore informazioni sull'utilizzo dei cookie e su come disabilitarli, clicca qui. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando su qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.

Stampa

Buon anno nuovo a tutti, sperando innanzitutto che questo tempo assurdo, intriso di marciume e umidità, finisca il prima possibile. Io odio il freddo (per questo non ho mai sciato – andare in vacanza al freddo è l’opposto esatto per uno come me, adoratore del sole e sognatore di spiagge esotiche), ma a questo punto comincio a sognare l’anticiclone siberiano, quello che da noi porta 10 gradi sottozero e bora sopra i 100 all’ora, ma almeno ci sono cieli tersi e clima secco. Ora come ora non faccio che letteralmente vegetare dormendo praticamente per tutto il giorno. Per fortuna ci sono i vostri commenti che mi tengono sveglio e in qualche modo tengono in moto le mie cellule cerebrali, stimolate da tutte le cose che leggo e che, più che surreali, trovo un tantino irreali. O comunque slegate dalla realtà più lapalissiana che suppongo di vedere e sperimentare. Leggendo quanto scrivete mi sembra di essere in una specie di mondo di Alice nel paese delle meraviglie, in cui tutto viene visto e spiegato in modo quasi psichedelico, secondo una realtà parallela che ai miei occhi esiste solamente nella fantasia di menti contorte. Mentre invece le cose fondamentali, le uniche che contano, non vengono neanche prese in considerazione.

Limitiamoci al basket, dove sento di essere a casa mia. Fra tutti voi che mi seguite non c’è proprio nessuno che in questo campo abbia fatto la strada che vi ho fatto io. Il basket è stato la mia vita, dapprima come squallido giocatore, poi come istruttore e allenatore a tempo pieno per 20 anni, agendo in condizioni impossibili, condizioni nelle quali oggigiorno uno non inizierebbe neppure, e poi facendo il giornalista e il telecronista. E come per il mio lavoro di telecronista ho cominciato nel modo peggiore che ci potesse essere (per riferimenti leggete la storia del nostro basket, nella quale parlo in dettaglio dei miei inizi da improbabile coach). In tutto questo tempo ho avuto modo di sperimentare ogni possibile tipo di approccio dapprima per motivare ragazzi e ragazze a giocare a basket e poi per insegnare loro il gioco. Il tutto senza che ci fosse alcun riscontro materiale sia per me che per loro, e dunque tutti gli appassionati di basket che ho svezzato e allevato sono squisiti dilettanti nel senso più alto della parola, gente che a giocare a basket si diverte e questo a loro basta e avanza. Se poi ha dato a tanti di loro anche di che vivere, tanto meglio. E dunque che gente che ha un infinitesimo della pratica per la quale sono dovuto passare mi spieghi le cose mi disturba molto, inutile negarlo.

Scusate questo sfogo che suona tanto di superbia e protervia, ma come sapete sono una persona sincera e dunque dico sempre quello che penso. Sono fatto così e non ho nessuna intenzione di cambiare. Prendere o lasciare (che sia la ragione per la quale sono arrivato alla mia vetusta età da perfetto single?).

Entrando nel merito, leggo: “Il pick and roll alto centrale non è un brutto movimento”. Va bene, per me è una cagata pazzesca, ma evidentemente per altri non lo è. Attendo che dopo un’affermazione del genere uno mi spieghi in dettaglio PERCHE’ non è un brutto movimento. Spiegazione omessa. Frase apodittica. Ipse dixit. E a me viene un inconsulto attacco di gonadociclosi. Allora: domanda prima e ultima: qual è lo scopo di un p’n’r alto? Cosa pensa di ottenere in fatto di vantaggio per l’attacco? Spiegatemelo, per favore, perché in 55 anni che vivo di basket non sono mai riuscito a capirlo. Il movimento prevede che il centro porti un blocco verticale verso il play. Per fare cosa? Per permettergli un tiro da otto metri dopo 5 secondi di azione? Oppure per portare il centro avversario fuori per liberare l’area (che è la fumosa spiegazione classica che viene data di solito)? Intanto il centro avversario deve essere tanto imbecille da andare a zonzo verso il centro del campo seguendo il nemico che fugge (a nemico che si allontana ponti d’oro). Che poi, per ragioni per me misteriosissime, il più delle volte lo faccia facendo figure idiote tipo fallo inutile a centro campo non cambia il senso del discorso. Ma la cosa più stupida che succede è che il centro che va a fare il blocco semplicemente va a rompere le scatole al play oscurandogli la vista di quello che accade altrove. Un play che vive di basket, che palesemente dovrebbe avere tecnica sufficiente di palleggio e di 1 contro 1, non deve avere alcun problema per arrivare in attacco marcato da un solo avversario. Non esiste. Anzi, 1 contro 1 vuol dire che l’attaccante deve, ripeto DEVE, sapere come andare via al suo uomo come e quando vuole. Se non lo sa fare che cambi sport. Ragion per cui mi sembra solo naturale che il nostro play debba avere tutto lo spazio necessario per permettergli di andare via al suo uomo (che è poi quello che fa Dončić) e cominciare così a creare gioco. Se va via di netto la difesa deve cominciare a aiutare e ruotare e dunque creiamo vantaggio per l’attacco. Se riescono a tamponare, l’attacco può cominciare a creare qualcosa mettendo sotto pressione la difesa con il primo passaggio fondamentale che dovrebbe avvenire ad ogni attacco, e cioè il passaggio all’uomo in post alto (che dunque se non va a fare raid in giro per il campo è molto meglio). Perché? Perché è il posto più nevralgico, il posto dove la difesa deve decidere con chi e come difendere. Arriva il centro dal basso? Prima opzione: elementare alto-basso con sviluppi di ogni genere. Arriva a chiudere una guardia da un lato? Seconda opzione: ribaltamenti e soprannumeri. Non arriva nessuno, come spesso succede oggidì? Elementare tiro libero in movimento che vale due punti invece di uno. Perché oggidì non viene nessuno? Semplicemente perché l’uomo che riceve palla in lunetta è talmente condizionato dal cercare l’uomo sul perimetro che neanche guarda avanti e normalmente non si accorge mai di essere solo. E io scaglio qualcosa contro la TV imprecando a tutta voce. Questa mancanza della più elementare delle letture mi lascia sempre basito. E’ così difficile spiegare a un giocatore che la prima cosa che deve fare quando riceve la palla in lunetta è guardare verso il canestro per vedere cosa succede? E’ un po’ come l’altro mistero eleusino del basket moderno, e cioè la penetrazione della guardia che, arrivata in perfetta solitudine a mezzo metro dal canestro per il più facile dei tiri (chi vi dice che il tiro da mezzo metro è difficile è uno imbecille o in perfetta malafede – bisogna avere tocco per segnare? Ma fatemi il piacere! Se uno ha proprio una mano quadra può sparare una bombarda nel quadrato sul tabellone, la palla entra sempre), spara un passaggio al famigerato tiratore da tre senza neanche guardare il canestro. Come dice Franco Stibiel, mitico istruttore triestino: “oggi tuti sa far penetra e scarica, ma nissun sa far più penetra e segna”.

Seconda cosa sconvolgente è stata leggere il pezzo riportato da Llandre sul coach che parla della licenza di tiro come fosse una straordinaria scoperta che, in effetti, ricorda molto da vicino quella dell’acqua calda. Mi è subito venuto in mente l’aneddoto raccontatomi da Đorđe Kožul su come veniva trattata la cosa a Zara ai tempi di coach Vlado Đurović. Qualcuno ricorderà che all’epoca vi giocava una guardia bionda di nome Darko Pahlić (giocava col numero 4) che aveva un patto con il coach: poteva tirare da tre solo a proprio rischio e pericolo. Se segnava, bene, se sbagliava era fuori dai 10 per la partita successiva. Detto in breve, per lui vigeva il totale divieto di tirare da tre, essendo considerato un’inguaribile mano quadra. In effetti sono andato a riguardare i miei quaderni con i tabellini e non ho trovato tiri suoi da tre. Non pensiate però che fosse scarso: giocava molto e segnava quasi sempre in doppia cifra, solo che erano solo tiri dalla breve distanza. Per segnare da lontano c’erano altri più qualificati di lui (Popović, Skroče…etc.). E proprio qui casca l’asino. Del basket moderno un’altra cosa che mi sconvolge è questo morboso attaccamento ai numeri. Il tal dei tali ha in stagione il 42,57% nel tiro da tre? Ottimo, può tirare quando vuole. Poi succede che in una partita abbia un bel 0 su 6. Però la squadra, forte dei suoi numeri, continua a dargli la palla e lui continua a tirare e sbagliare, ma i telecronisti asseriscono che è un tiratore, per cui è giusto così. Ora, chiunque di noi abbia mai giocato a basket sa che ci sono giorni nei quali anche chi di solito ha tiro (come lo aveva, modestamente, il sottoscritto) vede il canestro come un bidone con il tappo e sa che è proprio inutile che ci provi, mentre altre volte vede vasche da bagno e tutto quello che tira, entra. La licenza di tiro è dunque semplicissima, quasi stupida, da attribuire: chi in quella determinata partita segna, può continuare a tirare, anzi, faremo di tutto per fargli avere sempre il pallone, chi invece continua a spadellare, per quanto i numeri dicano che si tratta del nostro miglior tiratore, o si rende utile in qualche altro modo, o va in panchina. Di tirare ancora, forget it. Certo, poi ci sono giocatori fuori serie, capaci di segnare nei momenti che contano anche se prima hanno sbagliato tutto, ma quelli sono fenomeni che in giro non è che ce ne siano tanti. Quelli lasciamoli stare, sono di un’altra categoria. E infatti sono pochissimi, per cui la stupidissima regola generale dovrebbe valere sempre e comunque, in qualsiasi contesto. E invece non succede. Perché? Forse perché se faccio tirare il mio tiratore principale e lui sbaglia come ha fatto per tutta la partita, io come coach ho le terga parate e potrò sempre dire in conferenza stampa: “Che volete! Sfiga! Tutti sanno che è il nostro miglior tiratore!” Le partite però, scusatemi, non si vincono in conferenza stampa, ma sul campo.

E infine la consueta, ormai trita e ritrita, diatriba: “Che c’è di male se oggigiorno la gente è più atletica e segna da lontano molto più di una volta?”. Niente di male in sé, se non fosse che il contesto generale è molto più complesso e, più che preoccupante, totalmente desolante. La Grande Rivoluzione Tolemaica (nella quale si è riusciti a convincere la gente che è il Sole a girare attorno alla Terra, leggi che è il tiro da tre il perno insostituibile di ogni attacco che si rispetti e che lo zompare più in alto degli altri sia il fattore dirimente che distingue il giocatore forte da quello scarso) perpetrata da David Stern a metà degli anni ’90 grazie all’avvento del personaggio perfetto per un’operazione del genere, leggi Shaquille O’Neal, persona estremamente intelligente, ma dal fisico da Hulk e dai modi da cavernicolo, che dunque si prestava perfettamente alla bisogna sapendo benissimo quello che faceva, facendolo in modo perfetto e convincente, ha compiuto l’impresa di spostare il basket da sport vagamente snob per elite accademiche a sport di massa, leggi a sport da campetto di rioni popolari, che in America sono spesso e volentieri ghetti tout court. Tutto questo ha comportato una vera e propria rivoluzione a 360 gradi sul modo di concepire il basket. Se una volta era uno sport logico per gente intelligente, e dunque la cosa fondamentale era essere intelligenti per fregare l’avversario grazie all’astuzia abbinata a una tecnica raffinata, oggigiorno è invece una sfilata interminabile di gesti atletici devastanti normalmente fine a loro stessi (so che non lo potete sopportare, ma, di grazia, guardate qualche volta Dončić quando fa la finta di passare la palla facendo voltare il suo marcatore per poi segnargli il piazzatino da sotto canestro mentre quello guarda da un’altra parte – appunto, perché saltare come disgraziati, se si può segnare facilmente semplicemente essendo più furbi?) che accendono un pubblico molto più di massa che è per definizione mediamente molto meno istruito e educato. Il disastro di questo approccio è che, se una volta si considerava prima di tutto il fatto che il tale doveva essere in primis un giocatore di basket e poi, magari, era molto meglio se magari aveva anche il fisico, oggi il metro è completamente stravolto. Per essere un giocatore di basket sembra basti che uno tiri da otto metri, ma che soprattutto corra e salti come un pazzo, e solo dopo, magari, si tenta di inculcargli qualche infarinatura di basket. Se poi è fondamentalmente scemo e non impara mai cosa sia il vero basket e cosa questo comporti, pazienza. Però corre e salta e questo basta. Dunque gioca. E di conseguenza inquina con la sua imbecillità quello che era lo sport più intelligente che ci fosse. Ma la vera tragedia di tutto questo andazzo è di ben altra natura. Conosciamo tutti la storia degli Stati Uniti e la lotta titanica della popolazione afroamericana per l’emancipazione e l’aspirazione alla parità con la maggioranza bianca. Non esistono altri ascensori sociali che io conosca che prescindano dall’istruzione e dalla cultura e ogni minoranza oppressa può riscattarsi solamente acquisendo l’istruzione e la cultura necessarie per farsi accettare dalla maggioranza e dunque salire nella scala sociale. Una volta il basket, sport universitario, offriva agli afroamericani volonterosi e desiderosi di emancipazione e autostima gli strumenti necessari per poterlo fare e dunque abbiamo avuto tutta una serie di personaggi diventati giganteschi per carriera sportiva, ma anche intellettuale, quali Russell, Jabbar, Dr.J, Magic, lo stesso MJ o anche Barkley più tantissimi altri, ultimo Tim Duncan, mentre oggi il messaggio è sostanzialmente: saltate e correte, fate tanti soldi subito senza istruirvi perdendo tempo all’Università (cosa vi serve essere istruiti se avete una barca di soldi?) e vedrete che starete bene. Sì, starete bene nel vostro ambito dorato. Che sarà sì dorato, ma sarà sempre un ghetto di ignoranza. Dal quale non si esce mai. E dunque nell’immaginario della maggioranza trumpiana rimarrete gente che sì, ci fa divertire, ma ricordate che siete pur sempre una sottospecie di rozzi e ignoranti umanoidi. Per cui rimanete dove siete buoni e a cuccia. Alle cose importanti continueremo a pensarci noi. Come a dire: è solo giusto che noi siamo qui e voi lì. Apartheid totale, insomma. Neri d’ America: è veramente questo quel che voi volete per la vostra gente?