Felice anno nuovo a tutti. Sfrutto un po' di semi-ferie per qualche piccola riflessione anche su quanto è stato proposto nei vostri commenti.

Prima di tutto una puntualizzazione sull'affare Popovich. Mi sembra molto "all'italiana" dire che poteva far finta che, per esempio, Parker aveva un piccolo stiramento al quarto muscolo della falange destra perché nessuno potesse dirgli niente. Modo questo molto farisaico e, permettetemi, mediterraneo per parlare a suocera perché nuora intenda (o viceversa, non me lo ricordo mai). Cosa che però per uno che ha fatto importanti scuole militari mi pare completamente inconcepibile per non dire aliena. Lui è andato immediatamente "to the point" dicendo semplicemente che il calendario era demenziale, per cui lui i suoi vecchietti li teneva a riposo e, come dicono sempre loro, gli americani, "damn to the torpedos". Cioè io faccio così perché mi sembra l'unica cosa da fare e voi datemi tutte le multe che volete (appunto, al diavolo i siluri), ma la salute dei miei giocatori viene prima di tutto. Cioè l'esatto contrario della, scusate, imperante paraculaggine che sembra uno dei tratti più distintivi, ma soprattutto obbligatori, di tutti i coach di ogni sport del vecchio continente. In definitiva la cosa che ai miei occhi l'ha fatto diventare un idolo assoluto è proprio quella che gli viene imputata, e cioè di non esser stato "diplomatico", eufemismo per ipocrita. La quale, se ci pensate, è anche un formidabile gesto di difesa della propria squadra che, sono sicuro, i giocatori, anche quelli non coinvolti, avranno apprezzato tantissimo aprendo la strada affinché tutti i successivi mega-cazziatoni del loro vulcanico coach potessero cadere su terreno fertile e ricettivo. Ed è inoltre un'altra dimostrazione che anche nel mondo dell'NBA continua ad esserci qualcuno che pensa che il basket sia ancora uno sport e non solo un mix di esibizioni Togni-Orfei. Non solo, ma lo scandalo suscitato in modo tanto palese non potrà non portare ad una riflessione sui ritmi imposti dal calendario che, ormai è lampante, ha l'unico scopo di sfruttare in ogni modo la compagnia di giro delle stelle del basket parificandole ai pagliacci del wrestling (loro sono i clown del circo, i cestisti gli acrobati). Sul fatto che lo spettacolo debba essere rutilante, ossessivamente presente e dunque sfruttato dal punto di vista del guadagno fino all'ultimo cent possibile, si può anche essere parzialmente d'accordo, che però debba essere tracciata una linea ben precisa affinché vengano rispettati almeno i più basilari interessi dello sport che sta alla base del circo è altrettanto importante, oserei dire fondamentale.

Sempre in tema è il commento sulle parole di Gallinari (che così dimostra ancora una volta di essere una persona pensante) che dice che in America valgono solamente le statistiche, mentre il basket viene giudicato in Europa da tante altre cose che non rientrano nelle statistiche. Che sono quali? (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")

A questo punto su quali siano queste cose un solo intervento non basta, per cui ci ritornerò ancora. Per elencarle tutte infatti ci vorrebbe un trattato intero e, vista la reazione dei lettori quando tratto argomenti importanti (ai miei occhi), cioè il responso è inversamente proporzionale all'importanza (sempre ai miei occhi) dell'argomento, tenterò di essere breve promettendo di ritornare la prossima volta ad argomenti futili e dunque interessanti.

Allora. Primo gruppo di cose fondamentali che non entrano nelle statistiche, e cioè le caratteristiche comportamentali fuori dal campo. Di importanza decisiva per ogni gruppo è la persona che da il buon esempio. Sembrerà mellifluo e retorico, ma l'esempio che si da in spogliatoio incide profondamente su quanto poi si vede in campo. Il giocatore (e più bravo è, più il suo esempio conta) che si allena duramente, che non contesta le decisioni dello staff tecnico, che non cerca alibi nelle prestazioni degli altri per giustificare le sue giornate storte, quello insomma che non piazza casini, è un magnifico collante per ogni gruppo di persone impegnate collettivamente ad espletare un dato compito. Se poi è anche sincero e onesto, se dice sempre le cose come stanno, anche quelle spiacevoli, il suo valore è ancora maggiore. Se infine ha anche carisma, se è cioè un leader le cui opinioni contano, sia presso i compagni che presso l'allenatore, di cui (se l'allenatore è a sua volta un bravo allenatore, cosa peraltro tutta discutibile nel basket di oggigiorno) diventa magari il braccio destro in campo, il suo valore è incalcolabile. Per non urtare suscettibilità cestistiche qualche esempio dal calcio: Zoff o Scirea, Facchetti, Gattuso. Un'altra fondamentale caratteristica da spogliatoio è la consapevolezza di essere in una squadra e che dunque vince la squadra e non il singolo. Avere bene in mente, da indole quasi, questa cosa rende un giocatore estremamente prezioso. Quando uno si rende conto che la squadra è l'unica cosa importante, farà in modo di adattarsi senza problemi alle decisioni del coach, per esempio, capirà benissimo che se fa tanta panchina è perché si trova in un cattivo stato di forma e che per la squadra è meglio così. Se un compagno, magari fondamentale in campo, ha problemi non agonistici, tenterà di parlargli, di risolvere i suoi guai, perché senza di lui non si può vincere. Insomma, il cementatore del gruppo (il possessore del "cuore") ha un'importanza decisiva, che però nessuna statistica riporta.

Andando avanti ed entrando in cose che poi si vedono anche sul campo, una delle doti più importanti, anzi forse la più importante di tutte, è quella di essere un vincente. Che come prima cosa è di essere un non perdente. Di essere cioè una persona dal carattere tale per cui ogni sconfitta, anche nella partitella di briscola o biliardo in ritiro, costituisce una fitta al cuore che lo fa star male. Odiare perdere è la prima stimmata del campione. Il campione reputa di essere il più forte di tutti, per cui, conseguenza virtuosa come poche, vuole vincere senza barare, senza essere cattivo o odioso, se non nella misura in cui lo porti ad esserlo la sua voglia di vincere – nel senso che puoi giocare anche contro tuo fratello, ma se si tratta di prenderlo in giro con una finta per segnare un facile canestro non ci pensi neanche un secondo a chi hai di fronte -, vuole vincere solo perché pensa di essere più bravo di colui che si trova di fronte. Chiaramente, se è una persona intelligente, ha un ulteriore plusvalore: quando si trova davanti un singolo o una squadra che lui sa essere più forte, non si scompone, ma da sempre il massimo secondo la massima che il diavolo non è poi tanto brutto come lo si dipinge e che comunque anche i più forti hanno punti deboli da sfruttare a proprio vantaggio. E che comunque la superiorità mentale a volte basta per superare inferiorità fisiche o tecniche che sembrano insormontabili. Banale, se quello che mi marca ha 2 metri e 14 e salta 3 metri in alto, non cercherò di tirargli sopra o di schiacciargli in faccia, ma tenterò di fare canestri "sotterranei", magari in sottomano. Secondo questo abito mentale il vincente, quando scocca il tiro decisivo nel finale di partita, sa che deve segnarlo se non vuole stare poi male per una settimana, questa è l'unica cosa che in quel momento gli passa per la mente, per cui, appunto, tira per segnare. Che come sa chiunque abbia mai giocato a pallacanestro è l'unico modo per segnare veramente. Quando uno tira perché è casualmente solo, ma non se la sente, non fa mai canestro. Non solo, ma lui vuole che a vincere sia la squadra, per cui, se sull'ultima azione trova un compagno smarcato non ha nessun problema a dargli la palla. Ricordate Jordan con Paxson o Kerr? O l'aneddoto di quando Larry Bird era a un solo recupero dalla quadrupla tripla, ma si sedette in panchina per tutto l'ultimo quarto perché il giorno dopo c'era la partita contro Magic a Los Angeles? Ecco, ditemi quali statistiche conteggiano queste cose che sono le uniche, ma veramente uniche, credetemi, vi imploro, cose importanti che ci siano in una squadra.

Ed infine il nutritissimo gruppo di cose che si fanno, o non si fanno in campo, e che nessuna statistica conteggia. Sono tantissime che elenco solamente un paio di quelle che mi vengono in mente, riservandomi di riempire le lacune e completare l'elenco via via che me ne ricorderò qualcuna non menzionata prima. In difesa: posizione sbagliata, per cui il mio avversario mi batte in palleggio e costringe un mio compagno ad un fallo che si conteggia a lui invece che a me che sono la causa del suo intervento. Ancora: mancato tagliafuori a rimbalzo, per cui l'avversario prende un rimbalzo che non avrebbe dovuto e dunque nelle statistiche si dovrebbe contare un -1 a me invece che un +1 a lui. Oppure, andando all'estremo per far capire meglio l'idea, avete presente quelle situazioni nelle quali un attaccante si trova solissimo sotto canestro perché qualche difensore si è dimenticato di chi marcava, oppure ha capito male le indicazioni dalla panchina? Ecco, in situazioni come queste diventa stridente il fatto che nessuna statistica contempli una fotta di questo genere che dovrebbe valere almeno un -20 di malus nella valutazione complessiva. In attacco: la lingua batte dove il dente duole, almeno per me. Come forse saprete, sono un fissato sulla fallacia delle statistiche degli assist. Intanto un play, o se per quello, qualsiasi giocatore vero di basket, ha come uno dei suoi compiti principali quello di trovare sempre e comunque un compagno più libero di lui. Per cui quando fa un assist fa semplicemente il suo sporco dovere. Se dunque un play distribuisce in partita cinque assist, ma ne manca altrettanti lampanti non vedendo un compagno completamente solo che tenta in tutti i modi di richiamare la sua attenzione, per me la sua statistica finale dovrebbe essere di -5, o se proprio voglio essere generoso, di 0 facendo la somma algebrica di quanto fatto e quanto mancato. Sempre in questo ambito non vengono mai riconosciuti, ma proprio mai, i meriti di quello che si smarca per riceverlo, l'assist. A volte, anzi pensandoci bene sempre, la chiave dell'azione vincente verte sulle capacità di giocare senza palla del ricevente. Ed è proprio la capacità di giocare senza palla che nessuna statistica contempla, mentre è una delle doti tecniche più importanti per qualsiasi cestista (o calciatore, o pallamanista, o rugbista, o hockeyista...). In questo ambito vanno annoverati anche i mancati tagli, o i tagli sbagliati, o fuori tempo, soprattutto dei lunghi. Non dimenticherò mai l'aneddoto del mio play geniale (ma pazzo, in senso buono, in partita intendo) che in una partita urlava in continuazione al centro: "taglia! taglia! non vedi che non c'è nessuno?" finendo con il perdere la pazienza e tirargli una palla in testa mentre si trovava solo, ma non guardava, con l'accortezza di essere pronto a riprendere il rimpallo urlandomi verso la panchina "Sergio, vedi che non guarda?" e contemporaneamente, fra la perplessità degli avversari che si erano fermati (fra l'altro tutta la conversazione si era svolta in sloveno), scaricare un assist a Boris Vitez (lui sì che aveva tagliato!) per un facilissimo canestro. Per inciso la discussione successiva con gli arbitri che sulle rimostranze della squadra avversaria non trovavano l'appiglio regolamentare per annullare il canestro fu uno degli episodi più spassosi di tutta la mia carriera di coach. Questo per dire che la sensibilità del taglio al momento giusto è una delle doti più importanti che un centro possa avere e che nessuna statistica contempla. Ecco perché per esempio la gente non riesce, a suon di statistiche, a capire perché Erazem Lorbek sia tanto forte. O, se per quello, Fran Vasquez, uno fra i giocatori più sottovalutati che ci siano al mondo. O ancora Mason Rocca. Ce ne sarebbero tanti, ma guarda caso, visto che per le statistiche non esistono, non esistono neanche per i cosiddetti esperti.

Eccetera, eccetera. Insomma, morale della favola, il basket è la dimostrazione lampante dell'asserto che le statistiche sono il massimo delle bugie.