Sono molto, ma veramente molto, contento che abbiate apprezzato l'ultimo mio contributo, in quanto avevo paura che, non parlando di basket, il responso sarebbe stato tiepido, eventualmente condito da un po' di formale cortesia. Non solo, ma la discussione che avete messo in piedi è stata veramente di livello inatteso (lo posso dire?) e mi ha veramente reso fiero che a leggermi sia gente dotata della dote unica che secondo me ci rende diversi dagli animali, e cioè la curiosità intellettuale. Pensate infatti un po', facendo una riflessione di tipo estremo (di quelle che piacciono a me, perché, prima di dilungarsi in dettagli e distinguo, sempre necessari, ma secondari, si riesce con questi tipi di ragionamenti ad arrivare al vero nocciolo della questione), dove vivremmo ancora se qualche scimmia evoluta nel passato non avesse un giorno deciso di tentare di capire cosa avveniva attorno a lei e in un secondo tempo non avesse osservato che, piantando un seme in terra, ne usciva una pianta che magari poteva essere sfruttata per mangiarla. Per tornare con i piedi per terra dirò prima di tutto che, come sempre, il nostro scoiattolo della rete (sarà la versione digitale di topo di biblioteca?) Andrea ha centrato in pieno i libri che vi avevo consigliato, compreso quello sulla Bosnia per il quale lo avevo anche involontariamente depistato offrendogli un indizio fallace. Risparmiandomi il lavoro che avrei dovuto fare io per rovistare nella mia pila di libri. Grazie! (Per continuare a leggere clicca sotto su leggi tutto) 

Leggendo i vostri commenti, tutti pertinenti e che hanno coperto tutti i possibili punti di vista mostrando anche un interesse vero ad arrivare il più possibile vicini a un'interpretazione che potesse essere condivisa da tutti, mi sono lasciato inevitabilmente andare a una considerazione che a me appare incomprensibile. E' possibile che a scrivere cose tanto profonde e intelligenti siano le stesse persone che ancora qualche giorno fa, quando si parlava di basket europeo (con l'uscita anche della bestemmia più blasfema che potesse essere scritta su questo blog, che cioè bisogna ora attendere l'NBA per vedere un po' di basket vero - ?????), sparavano a destra e manca frasi in libertà lasciandosi andare a atteggiamenti da beceri tifosi da stadio? Non può essere. E allora mi sono chiesto come fosse possibile. Arrivando a una spiegazione che mi angoscia non poco. Evidentemente la cultura dello sport, non sportiva, ma proprio dello sport inteso come nobile attività che allena il corpo per allenare la mente e che è assolutamente necessaria in una qualsiasi società civile (conoscenza delle proprie capacità e limiti, il valore educativo che esprime soprattutto in termini di gerarchie e disciplina, il gioco inteso come attività propedeutica alle sfide che ci offre la vita, non ultima la capacità di raffrontarsi e confrontarsi con il prossimo, fondamentale requisito per qualsiasi contatto sociale, in breve per vivere con e accanto agli altri) qui da noi è ancora “borgo spagnolo” (španska vas) come dicono gli sloveni quando si riferiscono a una cosa totalmente sconosciuta. Evidentemente il retaggio di due millenni di condizionamento dovuto alla religione da noi imperante che reputa l'attività fisica ludica come una perdita di tempo e che può essere al massimo tollerata nei periodi di pausa fra attività che, quelle sì, ci portano più vicini alle porte del Paradiso, ha lasciato il suo segno penso indelebile e irreversibile. Eppure per i greci e i latini, e poi per tutti i popoli del Nord Europa, educati in una società a sua volta improntata ai valori espressi dalla riforma protestante, lo sport come inteso sopra è sempre stato un pilastro dell'educazione delle nuove generazioni. E viene visto come una cosa terribilmente seria, come dovrebbe essere. Nel più profondo del nostro essere mediterraneo c'è un qualcosa che ci fa saltare tutti i freni quando parliamo di sport. Nel senso che nel nostro subconscio lo sport è “circenses” per quanto poi ci si sforzi di capirne i valori che esprime. Soprattutto quando mandiamo i nostri bambini a fare qualche attività riusciamo a capire un po' cosa lo sport sia, salvo poi magari la domenica andare allo stadio e metterci il cappello del tifoso che il giorno dopo discute per ore al bar su cosa sarebbe stato se quel porco di arbitro non avesse dato un rigore inesistente agli avversari senza aver visto tre clamorosi fallacci in area ai danni dei nostri bomber.

In definitiva quello che io propugno è semplicemente di essere seri anche quando si parla di sport, anche di quello di vertice che pure somiglia sempre più ai circenses romani, anzi li emula in toto quando si parla di NBA. Non credo possa essere impossibile sforzarsi di non mettere il cappello del tifoso anche quando si parla della nostra nazionale di calcio o di basket, come nel caso degli Europei, mantenendo il livello del discorso al livello di tutti gli altri discorsi che facciamo quando parliamo di cose serie. E il termometro più infallibile che oggigiorno da noi la politica è diventata quella che è, è dato dal fatto che se ne parla sempre più in termini da tifo da stadio parlando di rigori non dati e di fuorigioco non fischiati invece di entrare nel merito e di parlare delle cose veramente importanti delle quali dovrebbe occuparsi, il lavoro, la dignità umana, l'istruzione soprattutto, la sicurezza sia materiale che morale, la ricostruzione di un tessuto sociale di responsabilità individuale e di spirito di sacrificio, di onestà e lealtà che negli ultimi anni è andato a escort.
Passando finalmente a quello che dovrebbe essere il tema di questi miei interventi, e cioè il basket, la notizia del giorno è ovviamente la scomparsa di Sergej Belov. Chi è stato? Per me è stato, parametrato ai tempi nei quali giocava, semplicemente il più grande giocatore di basket europeo di tutti i tempi. Pensate un po': arrivava dagli Urali in un ambiente che era blindato a tutte le influenze esterne improntato alla massima autarchia, non solo, nell'URSS avevano un'avversione ideologica nei confronti di tutto quello che arrivava dall'America, eppure appena si è presentato al mondo ha fatto esclamare a tutti, primo fra tutti Aldo Giordani, che era ben poco tenero verso tutto quello che arrivava dall'Est comunista, che si trattava di un americano che era nato per sbaglio in Russia. Il talento era perciò assolutamente smisurato se praticamente da autodidatta ha imparato tutto quello che si doveva sapere del basket. Per noi che eravamo giovani all'epoca era apparso subito come un marziano che strideva in modo incomprensibile con tutte le immagini che avevamo della Russia. Tecnicamente non aveva difetti e infatti pochi giorni fa scrivendo la mia rubrica per il Primorski e commentando il gioco brutto che si vede oggigiorno propugnavo la rinascita dei talenti del passato dissi: “oggi non si vede più un arresto e tiro fatto in una frazione di secondo (Sergej Belov, dove sei?)”. Era la bellezza assoluta del basket alla quale si può paragonare solo quella di Mirza e vederlo all'opera, soprattutto dal vivo, era una gioia per gli occhi. Un'altra indicazione della sua immensa grandezza deriva dal fatto che, nato nel '44, ha attraversato nei suoi anni migliori senza esserne in alcun modo condizionato o limitato la grande rivoluzione del basket degli inizi degli anni '70 che proiettò il nostro gioco verso l'età dell'oro finita più o meno a metà degli anni '90, quando cioè Michael Jordan diventava anziano e i grandissimi americani degli anni '80 (il Dream Team) pian piano cominciavano a smettere di giocare. E contemporaneamente in Europa si esauriva la grandissima generazione di scuola jugoslava. Detto di sfuggita per confutare una critica che fanno i più giovani che a quei tempi non erano ancora nati e, come tutti i giovani, a volte parlano a vanvera di cose che non sanno (i giovani sanno sempre tutto, come è anche giusto che sia, se no il mondo non andrebbe avanti), nessuno all'epoca, quando cominciarono a fiorire i grandissimi talenti di quei tempi e il gioco cambiò radicalmente di qualità, neanche lontanamente gli passava per la mente di dire che si giocasse peggio rispetto ai tempi passati. Tutti si rendevano conto che le cose erano cambiate radicalmente e che si era agli albori di una nuova età del basket, incomparabilmente migliore di quella appena trascorsa. Tornando a Belov lui aveva 20 anni e si impose quando il basket era ancora simile alla palla al cesto degli anni '50 e si trovò di colpo, in piena maturità, ad avere a che fare con i vari Ćosić, Kićanović, Delibašić, Slavnić, per limitarmi agli jugoslavi senza tenere conto dei vari Marzorati o Corbalan che uscivano dalle altre scuole europee. Eppure alle soglie della trentina continuò a essere un fattore fondamentale nel panorama del gioco Europeo, non solo, ma per tutti noi continuò a essere il santone massimo, il guru assoluto al quale venivano paragonati tutti gli altri. Il miglior complimento che all'epoca si potesse fare a un giovane giocatore era: “Somiglia in certe cose a Sergej Belov”. Per non dire che il suo importante apporto lo dette ancora alle Olimpiadi di Mosca dell' '80 a 36 anni.
Sulla controversa finale delle Olimpiadi di Monaco che commentai in diretta devo dire che al momento, per quanto caotica, la situazione che si era venuta a creare mi era sembrata regolare, anche se poco ortodossa. Il problema nacque dal fatto che dopo i due tiri liberi di Doug Collins a 3 secondi dalla fine e il caos che si era creato per la situazione nessuno si accorse che la panchina sovietica aveva chiamato timeout, per cui si giocarono i famosi tre secondi che non portarono a niente e gli americani si erano già messi a festeggiare. Salvo poi, su richiamo del tavolo (e soprattutto, come continuò a martellare per secoli Aldo Giordani, del big boss della FIBA William Jones, seduto in tribuna dietro al tavolo), tornare indietro di 3 secondi per permettere il timeout dei sovietici. Che, alla ripresa del gioco, trovarono il famoso passaggio lungo con il canestro allo scadere di Aleksandr Belov. Sul quale gli americani con l'ausilio di milioni di replay trovarono da ridire di tutto, ma che al momento, almeno a me, sembrò del tutto regolare. E, onestamente anche oggi, vista e rivista l'azione, continua a sembrare abbastanza regolare salvo una millimetrica infrazione di passi di Belov, di quelle che oggigiorno gli arbitri neanche si prendono la briga di rilevare. Scusate, e allora Lebron contro Chicago (mi sembra)?
Per finire con Belov e con il carisma che aveva ancora a 32 anni nella semifinale delle Olimpiadi di Montreal mi piace sempre ricordare il famoso aneddoto di Slavnić che non era entrato in quintetto e che quando entrò si avviò direttamente verso Belov e, con l'intento di destabilizzarlo psicologicamente, gli disse spudoratamente: “Ajde Sergjoša, došao ti majstor!“ (Attento Sergetto, è arrivato il maestro!). Intento peraltro fallito miseramente, almeno a giudicare dal fatto che Sergjoša continuò a martellare implacabilmente il canestro jugoslavo.