"A Mondiale finito è difficile non avere la sensazione che la differenza fra il basket americano e quello del resto del mondo si stia nuovamente ampliando. A questa conclusione si arriva non solo paragonando fra di loro i risultati delle partite, in quanto dobbiamo sempre avere in mente il fatto che Krzyzewski aveva stavolta nelle mani una squadra molto giovane e motivata, affamata di risultati e piena di energia. Lui i suoi giocatori ha imparato a prepararli a evitare le trappole che potrebbero tendergli le nazionali europee e sudamericane da quando ha ricevuto un bel calcio nei denti nel 2006 contro la Grecia. Da quel momento in poi non ha più perso, la zona e gli aiuti sui pick’n’roll non sono più un mistero, come pure non lo sono le regole FIBA. Il suo lavoro però è reso sicuramente molto più facile dal trend che impera (con poche eccezioni) già da molte stagioni nel basket europeo, alla costante ricerca di copie robotiche degli americani volanti. Il risultato finale di una selezione e di un lavoro del genere sono atleti, chiaramente comunque nettamente inferiori a quelli che può produrre l’America, con in compenso un quoziente di intelligenza cestistico molto scarso e con un carattere ingenuo che come unico motto ha quello del Citius, Altius, Fortius in uno sterile tentativo verbale di aumentare l’autostima, il tutto senza avere vere basi tecniche e tattiche.”

Quello che avete appena letto è il commento sul Mondiale apparso oggi sul Delo, il massimo quotidiano sloveno, a firma Eduardo Brozovič. Ve l’ho riportato tale e quale per due motivi: il primo è che ricalca parola per parola, concetto per concetto, quanto volevo scrivere io, per cui  è bastato copiare facendo molta meno fatica, e il secondo è che con questo penso di dimostrare che il cosiddetto temutissimo e aborrito nonché spesso sbertucciato “Tavčar-pensiero” forse non è tanto isolato quanto sembra leggendo i commenti soprattutto degli adepti della setta degli adoratori dell’NBA e delle sorti magnifiche, progressive e ininterrotte dell’umanità.

 

 

Summa summarum: quando produci copie, queste saranno sempre inferiori all’originale. Tanto più quando parti da basi fortemente svantaggiate in partenza. Lascio stare da parte il discorso, che andrebbe comunque fatto, ma che per ragioni di correttezza politica viene pilatescamente evitato, sulla genesi puramente biologica e genetica degli afro-americani (figli di schiavi già selezionati dagli schiavisti in Africa, poi ulteriormente selezionati dalle disumane traversate atlantiche, poi ancora selezionati prima al mercato e poi dai terribili lavori ai quali venivano sottoposti, e con tutto ciò, come se non bastasse, c’è da aggiungere il continuo benefico rimescolamento dei cromosomi grazie agli incroci di esseri umani dalle provenienze più disparate, e se infine non bastasse ancora, con l’ulteriore rimescolamento di geni con gente di altra estrazione e colore di pelle quando la segregazione ha un tantino mollato la sua ferrea presa, almeno in alcune parti degli USA…) mettendo l’accento sul fatto che comunque il basket è sport che pare fatto apposta per il fisico e la mentalità degli afro-americani, tanto più per quelli che, grazie a questo sport e agli agi che può offrire, possono uscire da situazioni personali ben poco invidiabili. Per cui, detto in breve, se con loro la buttiamo sul fisico, verremo sempre e comunque bastonati a sangue, come appunto i Mondiali hanno dimostrato. Purtroppo, come il commentatore del Delo ha più che giustamente sottolineato, la cosa che più preoccupa, e che la mentalità di alcuni dei frequentatori di questo blog dimostra in abbondanza, è lo stato d’animo attuale del basket europeo, la sua visione del mondo, per dirla alla tedesca. Travisando completamente il concetto imperante della globalizzazione forzata (che di per sé non è né un bene né un male, semplicemente “è”) si pensa, anzi si crede fermamente, in modo quasi apodittico, che per fare bene bisogna comunque fare come loro, che sono i più forti. Il che è semplicemente idiota. Ogni parte del mondo ha la sua storia, la sua cultura, la sua mentalità, tanto più noi in Europa che abbiamo quasi tre millenni di storia (sfido chiunque degli autori di teatro moderni a scrivere una tragedia che possa aggiungere qualcosa a quanto scritto 2500 anni dai greci nell’”Antigone” o nell’ “Edipo Re”), per cui sarebbe solo ovvio, normale e logico che in qualsiasi cosa che noi facciamo, questo fatto fosse sempre ben presente nella nostra mente. L’Italia nella moda e nel design grazie a Dio non copia nessuno, per cui può rimanere a galla nell’economia globale. Perché di grazia dovrebbe copiare nel basket gli Americani, che sono anni luce distanti da noi per abitudini, mentalità, cultura eccetera? Non l’ho mai capito, né lo capirò mai, mi dispiace. Posto che, e grazie ai Mondiali che lo hanno dimostrato in modo inequivocabile, a copiare gli Americani faremmo sempre figure all’Alberto Sordi che vuole fare l’americano, starebbe ai nostri tecnici di vertice di trovare un modo, di mettere in piedi una scuola, che possa produrre giocatori “italiani” a 360 gradi, in tutti i sensi, giocatori che possano far valere le doti precipue degli italiani, dirò di più, si potrebbe lavorare addirittura sulle caratteristiche regionali, esaltandone le doti e mascherando i difetti, come più volte detto si dovrebbe fare in ogni campo. E così dovrebbero fare tutti in Europa. Lo fanno gli asiatici per ragioni autarchiche, nel senso che pochissimi, se non nessuno, hanno le doti soprattutto fisiche per andare a giocare all’estero, dovremmo farlo noi coscientemente, magari andando contro la via maestra del pensiero unico omologato all’NBA, dovremmo farlo per semplici ragioni di sopravvivenza e di dignità. Lo facevano in Europa fino a non molto tempo fa serbi e lituani, ma mi sembra, ahimè, che anche da quelle parti si stia prendendo la strada sbagliata. Per i più anziani: sapreste dirmi cosa di Bogdanović, per parlare del più bravo di tutti, vi ricorda di un qualche giocatore serbo del passato, in fatto di atteggiamento, di presenza in campo, di tipo di gioco? A me niente. Se si chiamasse Gottgiben e fosse tedesco o svedese sarebbe lo stesso.

E purtroppo non finisce qui. Se anche vi fosse questa rivoluzione culturale (allo stato del cose altissimamente improbabile per non dire impossibile) ci sarebbe il dato che taglia la testa al toro. Un europeo forte va per forza a giocare nell’NBA, standardizzandosi alle loro abitudini anche relativamente velocemente, visto che il mondo è diventato, appunto, globale, e le partite in TV o su Internet dell’NBA le si vede a iosa quante se ne vuole. Per cui dimentica subito (e purtroppo è molto contento di farlo perché prima lo fa, prima si integra e diventa uno di loro) quanto può aver imparato a casa propria.

Siamo senza speranza? Saremo sempre più copie sbiadite al limite del grottesco rispetto all’originale?

Temo di sì.

Sulla tecnica. Rileggete il primo post di Llandre, perché sottoscrivo pienamente quanto da lui detto, per cui non ho proprio nulla da aggiungere. Fra l’altro, complimenti, è stato chiarissimo e soprattutto sintetico (vuoi venire a fare il giornalista? La sintesi è fondamentale per chiunque voglia fare il giornalista. Frecciata ai telecronisti di Sportitalia? Assolutamente sì). Aggiungo solo che ho vissuto in prima persona un caso che conferma quanto da lui scritto. Dopo cinque minuti che avevo messo per la prima volta la palla in mano a Boris Vitez quando aveva 15 anni e il basket non sapeva neanche cosa fosse, mi ero subito accorto che un giocatore delle sue capacità non lo avevo mai allenato prima. Per cui lo feci esordire subito in tutti i campionati possibili, compresa la Prima divisione che si giocava a primavera inoltrata. Dovendo misurarsi, a 15 anni, con marpioni più vicini ai 40 che ai 30, tutti eccellenti ex giocatori veri, di quelli che Trieste una volta produceva in quantità industriale uscendo da straordinarie scuole tecniche (Ginnastica Triestina, Don Bosco, Italsider, Inter 1904, Ricreatori stessi eccetera…), Boris sviluppò, anche copiando i movimenti da un nostro bravissimo giocatore che tutti conoscevano come “Mr.Finta”, tutta una serie di movimenti sotto canestro che gli permettevano di fare tanti canestri, lui ancora piccolino e magrolino, ma velocissimo e con una straordinaria coordinazione naturale. Poi lasciò per un breve periodo il basket dedicandosi al suo primo vero grande amore, il calcio (dove era stato nazionale giovanile dello Stato di Victoria quando ancora viveva a Melbourne dove è nato), calcio che abbandonò per la delusione provocatagli dalle condizioni nelle quali doveva allenarsi, e ritornò al basket. Nel frattempo però era cresciuto e si era irrobustito e soprattutto aveva cominciato a saltare come un canguro. Per cui nei campionati successivi, anche quelli senior, gli bastava arrivare nei pressi del canestro, alzarsi in sospensione e tirare che tanto nessuno riusciva più a stopparlo. Morale della favola: il suo percorso di apprendimento tecnico si bloccò e, per quanto sia sempre stato un modello di serietà e applicazione, purtuttavia almeno secondo me in carriera non ha ottenuto tutto quello che avrebbe potuto ottenere se solo fosse cresciuto uno, due anni più tardi. Questo per dire che Llandre ha perfettamente ragione, e la cosa è talmente ovvia che le critiche da lui ricevute dai soliti adepti della setta eccetera possono spiegarsi solamente con una mente ottenebrata dalla fede a prescindere. Se in uno contro uno non mi fermano, perché di grazia dovrei fare cose strane? Vado e segno. Se mi danno 20 cm e segno sempre dagli otto metri, perché dovrei fare fatica a andare a prendere botte sotto canestro? Se poi entro e uno mi prende, do la palla a quello che aspetta sulla linea della tripla e la mette lui. Poi faccio tanto per cominciare 6 su 6 da tre nella finale del Mondiale, 69% alla fine del primo tempo. What’s the problem? Il problema nasce quando dall’altra parte potrei trovare qualcuno che, con le mie stesse doti fisiche, mettesse in piedi una difesa più di squadra e non mi lasciasse fare quello che voglio. Ed è appunto questo che sono continuamente in attesa di vedere quando giro su qualche partita NBA. Ma non lo vedo. Da qui le mie critiche. Che poi questo tipo di gioco scarnificato basti e avanzi per asfaltare le brutte copie di me stesso che mi trovo davanti è tutto un altro discorso, che con il primo non c’entra niente. In campo internazionale si è visto che attualmente il gioco che praticano gli americani, stante la loro debordante superiorità fisica con la annessa attitudine a sfruttarla al meglio (sono d’accordo: il controllo in velocità, per quanto il gesto sia tecnicamente elementare, è comunque un indice di tecnica), superiorità fisica che non significa solo correre più velocemente o saltare di più, ma avere anche una straordinaria superiorità nella reattività, nella capacità di reagire prima agli stimoli esterni, in definitiva di rubare palloni su palloni alla Arsenio Lupin senza che l’avversario neanche se ne accorga, basta e avanza per asfaltare chiunque tenti di opporsi loro con le loro stesse armi. Purtroppo il discorso è che una volta avevamo anche altre armi che potevano metterli in difficoltà. Oggi non più, volendo giocare come loro. Per cui, o il gioco si rimette in moto nell’NBA stessa sperando che ci sia qualcuno che voglia copiare quanto fatto da Popovich magari con una squadra dall’età media sui 10 anni in meno, oppure…viva la Ryder’s Cup della prossima settimana!