Ho testimoni: alla vigilia delle Final Four, parlando fra amici, ho affermato che il mio favorito era senza dubbio l’Olympiacos. Perché? Semplicemente perché era fra le quattro l’unica squadra di basket, le altre essendo assembramenti di nomi, alcuni dei quali anche grandi, che però non avevano gli attributi della squadra di basket. Per squadra di basket intendo, semplificando il discorso che ovviamente è molto più articolato, una squadra nella quale qualsiasi giocatore sia in campo dia chiaramente l’impressione di sapere cosa in campo ci stia a fare. A due livelli: tecnico e gerarchico. Tecnico nel senso che ogni giocatore deve sapere cosa sa e cosa non sa fare, ma soprattutto deve sapere cosa il coach pretenda da lui. Gerarchico nel senso che ci sono leader, luogotenenti, caporali e truppa. Il leader detta il gioco, i luogotenenti lo seguono, i caporali e la truppa eseguono. Con le opzioni che devono essere ben esplicitate: il leader può prendersi alcune libertà che i sottoposti non possono né devono prendersi. E può farlo proprio perché è il leader che ha precise responsabilità nei confronti dei compagni come ogni vero capo che si rispetti, responsabilità peraltro alle quali, quando la partita si fa dura, non deve sfuggire.

E l’Olympiacos ha Spanoulis come ovvio leader, Printezis come altrettanto ovvio luogotenente, gli altri piccoli, Mantzaris e Sloukas caporali, gli altri truppa, compresi i lunghi che devono farsi un mazzo terribile in difesa, in attacco farsi trovare pronti per affondare la schiacciata e per il resto guai se si prendono una qualsiasi iniziativa. Non per niente in questi anni sono arrivati ogni anno molto più lontano di quanti tutti pronosticassero leggendo i nomi e scuotendo le spalle. Fra l’altro non è certamente un caso che a ogni Final Four si presentano con un nuovo allenatore, ma continuano ogni volta a giocare allo stesso modo. Benissimo.

E allora, detto questo, che abbiano perso in finale mi fa girare vorticosamente gli zebedei. Perché a questo punto tutti mi possono ridere dietro, “ma il punteggio finale ti dice niente?”, mentre proprio la finale mi ha, almeno personalmente, clamorosamente confermato di aver avuto ragione su tutta la linea. Però lo so solo io, e la cosa mi frustra immensamente. So di essere patetico, ma almeno provate a seguirmi nel ragionamento che sto per presentarvi e che comunque vi illustrerà in modo plastico, con un esempio reale, il mio modo di vedere e di interpretare il basket. Sapete tutti, almeno quelli che leggete questo blog dagli inizi, che il mio assioma di base recita: il basket è uno sport che si chiama in italiano palla-a-canestro, che cioè presuppone che la vittoria vada alla squadra che infila più volte (e non che gli avversari ne infilino una in meno, perché questo ragionamento contorto, o per meglio dire alla rovescia, non riuscirò, mai e poi mai, non solo a digerirlo, ma neanche a concepirlo) una sfera di cuoio in un anello di ferro posto a 10 piedi di altezza. Chi ci riesce più volte vince, l’altro perde. Tutta qua. E allora leggo le statistiche della finale che confermano in pieno la sensazione avuta dal vivo del tappo posto sul canestro del Real: 5 su 23 da tre, 12 su 26 nei liberi. Si, ma volete mettere la difesa del Real? Essendo una persona bene educata non vi dico neanche dove potete metterla, in quanto, o avevo le traveggole, o ho visto di questi 23 tiri uno di frustrazione di Spanoulis da 10 metri subito dopo aver sbagliato due tiri liberi, poi un paio di vaccate di Lafayette che, vista la mano che aveva (1 o 2 su 5 nei liberi, se non ricordo male), neanche non doveva pensare di tirare, anche se, poverino, quando ha tirato era effettivamente solo, e poi tutto tiri in piena solitudine con il solo Lojeski che ne ha messi un paio, uno Sloukas e poi tutto sbang, sbang, bleng, ding e via andando. Dei 12 su 26 ai liberi non parlo neanche. Ma vi rendete conto che sono 14 punti tondi tondi? Come avrebbe giocato una squadra come il Real che non aspetta altro che di farsela addosso se invece di più 6 a sette minuti dalla fine fosse stata a meno 4, e per questo bastava solo che i greci avessero segnato i liberi? Per me la finale è tutta qua. Una squadra segnava, anche tiri inattesi, per non dire assurdi, non dite che non siete saltati dalla sedia quando Mačiulis ha alzato la mano per tirare le due bombe nel secondo quarto che hanno fatto il primo break, e non dite che il 3 su 3 di JC Carroll nel terzo quarto con l’uomo addosso era normale. L’altra squadra, che giocava molto meglio (nel primo tempo mi sono trovato un paio di volte a alzarmi dalla poltrona dicendomi ad alta voce: “ma quanto bene giocano, finalmente, bravi, dopo tanto tempo rivedo il basket, bravi, così si gioca” e via dicendo), non la metteva neanche nella vasca da bagno.

Perché? Ovviamente una spiegazione matematica non c’è. Io però un’idea ce l’avrei: dopo aver battuto lo squadrone di palle lesse per eccellenza e quasi antonomasia in semifinale, l’Olympiacos ho avuto la netta impressione che stavolta, rispetto alle due vittorie recenti, avesse iniziato la finale consapevole, anzi probabilmente convinto, di poter vincere. Loro si consideravano, giustamente dal mio punto di vista, più forti del Real, per cui non hanno giocato con la sfrontatezza e la libertà mentale che li ha portati a due successi di fila. Ripeto, è un’impressione e prendetela per quello che vale, cioè molto poco.

E con tutte le polveri bagnate dell’Olympiacos il Real, per vincere, ha avuto bisogno oltre che delle varie apparizioni mistiche che hanno ispirato Mačiulis e Carroll, della enorme classe ma soprattutto della straordinaria efficacia di Andres Nocioni. Classe ’79. Cioè largo ai giovani, perché il progresso è tumultuoso e inarrestabile. Oddio, uno più tempo gioca, più memorizza il gesto tecnico, e infatti il “Chapu” come tira adesso non tirava mai, più acquisisce in fatto di esperienza, ma altrettanto più perde in fatto di gambe e polmoni. Il che, se mi permettete, conferma in pieno quanto dico fino all’esaurimento nervoso  e che cioè avere tecnica, intelligenza e comprensione del basket è l’unica vera cosa che importa, il fisico aiuta, a volte in modo determinante, ma se non si sa giocare non si va da nessuna parte. Vedendo l’impatto incredibile che ha avuto Nocioni sulla partita, anzi sulle due partite, perché in semifinale ha fatto andare totalmente fuori di testa Nemanja Bjelica,  uno non può non pensare che fortuna abbia avuto nell’aver potuto vedere a metà del decennio scorso, quando tutti avevano dieci anni di meno e erano nel pieno della maturità fisica e tecnica, l’Argentina dei miracoli di Sconocchini con Sanchez, Ginobili, Nocioni e Delfino, Scola e Oberto con Volkowyski, forse la più “logica” squadra di basket mai vista in vita mia.

Per il resto, se tre indizi fanno una prova, il Real è ufficialmente una squadra di palle lesse. O almeno tali diventano quando il gioco diventa veramente duro e decisivo. Rudy ha avuto di buono solamente la fidanzata che veniva continuamente inquadrata (più che giustamente), Il “Chacho” ditemi dov’era perché io non l’ho visto, Llull è giocatore da fiammata improvvisa e a sprazzi, ma non può certamente essere una delle colonne della squadra, Bouroussis si capisce benissimo perché a) sia arrivato a Milano, perché lì prendono solo gente simile e b) perché, andandosene, è sparito in fondo alle rotazioni del Real. Dove peraltro ha giocato benissimo Ayon, ma solo la prima partita, perché in finale la difesa dell’Olympiacos non gli ha assolutamente lasciato fare quello che faceva contro il Fener, e dove ha giocato benissimo anche KC Rivers, uno dei pochissimi giocatori del Real assieme a Reyes e Slaughter a dare l’impressione di sapere cosa si pretenda da lui. 

In breve sulle altre due compagini, perché definirle squadre mi sembra troppo ambizioso. Sul Fenerbahce avevo detto tutto nel post precedente, i fatti hanno perfettamente confermato quanto avevo detto, per cui non avrei nulla da aggiungere. Una vera squadra semplicemente non può prendere imbarcate da 14 a 35. Non esiste. Non si può. Ribadisco, se si è squadra non si può.

Il CSKA è esattamente sempre quello e mi sembra curioso che ogni anno la gente si attenda che faccia diversamente da quanto ripetutamente fatto nelle stagioni precedenti. Se una cosa è nel DNA, allora ci rimane. Gioca, gioca, poi quando arriva il dunque si perde. Perché non ha proprio nessuno che possa prenderla in mano. Teodosić è ormai un caso clinico, l'altro, come si chiama, Jackson o comunque lui, è uno che a Trieste diremmo che l'hanno trovato sulle bancarelle in Cavana (fatevi spiegare dai triestini cosa intendo), l'unico vero campione che hanno, ovviamente AK47, non ha neanche visto palla in due partite. Hanno fatto una figura tristissima. Come sempre. E allora dove sta la sorpresa e la meraviglia?