L’altra sera, chiacchierando con Claudio Pea (tagliando completamente fuori, e me ne scuso profondamente, il povero Simo Salvador, ma ci siamo lasciati prendere la mano), mi sono molto divertito (e a volte commosso, travolto dai bellissimi ricordi di quando eravamo ancora giovani, entusiasti e molto attivi), ma appena finita la diretta ho provato molto imbarazzo pensando ai poveri ascoltatori che si erano sorbiti una confessione fiume e mi chiedevo fino a quando avevano resistito, poverini. E sono rimasto scioccato quando mi avete scritto che certi eravate arrivati fino alla fine. Non posso credere. Io mi sarei fermato molto prima e proprio non riesco a capire con quali attributi al titanio siate riusciti in questa impresa. Vi ringrazio comunque di cuore, perché evidentemente abbiamo detto anche cose che la maggioranza di voi reputa giuste. A proposito, Cicciobruttino: il discorso sul rugby non l’ho cominciato io (mio padre avrebbe commentato questa scusa: “trova ti una mejo!”), ma poi non potevo certamente abdicare alle mie convinzioni in merito che tutti voi ben conoscete e spero che per questo non ce l’abbiate troppo con me. Inutile: sono nato e cresciuto con una mentalità prettamente balcanica. Come detto: per me lo sport è divertimento, presa in giro e creatività e non è certamente un’operazione militare di commandos. E infine, Franz: il nome del giocatore di Rieti mi è tornato in mente ovviamente nel momento stesso in cui mi sono scollegato: si chiamava Blasetti.

 

Durante la trasmissione abbiamo anche toccato l’argomento della cultura sportiva che avete trattato anche voi nei commenti al post precedente con la pubblicazione da parte di Stefano dell’intervista con un esperto del settore dell’inclusione sociale. Intervista che è stata sicuramente molto interessante e contemporaneamente deprimente pensando alla situazione catastrofica della nostra scuola proprio in questo settore. Ovviamente quando si parla di inclusione sociale la scuola dovrebbe ricoprire un ruolo cruciale: senza scuola non c’è inclusione sociale (anche per questo ripugno l’idea stessa di istruzione privata che è l’esatto contrario del concetto stesso di inclusione sociale, essendo fatta proprio per permettere la miglior educazione di elite non certamente di aristocratici, ma semplicemente di coloro che hanno più soldi). Ora non c’è assolutamente miglior modo di favorire l’integrazione sociale che l’attività sportiva. Scuola e sport però storicamente sono in Italia due mondi alieni fra loro (e l’avversione degli “educatori intellettuali” italiani nei confronti dello sport non sono mai riuscito a capirla nella sua essenza – per me chi non capisce l’importanza dell’educazione fisica nello sviluppo armonico di un bambino è semplicemente tutt’altro che un educatore, ma uno frustrato di limitate capacità intellettive), per cui da questo punto di vista mancano proprio le basi per una efficace politica di inclusione sociale. Ripeto per l’ennesima volta che i latini, che come sapete sono convinto che avessero capito tutto della vita, con “mens sana in corpore sano” intendevano una relazione causale del tipo “non c’è mente sana senza corpo sano” e che dunque per loro (come pure per i greci) l’educazione fisica era fondamentale quanto quella cognitiva mentale per lo sviluppo armonico di ogni essere umano. E ovviamente i popoli civili prestano estrema attenzione a questo lato dello sviluppo facendosi cura nell’ambito dell’istruzione pubblica dell’attenzione dovuta nei confronti dello sport. Come prima cosa per allevare gente che sappia correre, saltare e nuotare (atletica, ginnastica, nuoto, gli sport di base), e che dunque impari a rendersi conto che una regolare attività fisica deve sempre trovare posto nella loro vita da adulti, ma soprattutto per i valori inestimabili di socialità, di condivisione di esperienze, responsabilità, gioie e dolori, e ovviamente di inclusione sociale. Solo lo sport insegna che si vince tutti insieme e che un gruppo coeso di amici vale incomparabilmente di più di un insieme di ego distorti.

Negli ultimi commenti avete inoltre toccato alcuni argomenti che, forse non tutti lo saprete, ma mi toccano fortemente. Avete parlato di hockey a rotelle e a chi si potrebbe parlare meglio di questo sport che non a un triestino. Quando ero piccolo, parlo verso la fine degli anni ’50, la Serie A italiana era una specie di campionato triestino allargato a qualche realtà veneta. C’era la Triestina, squadra sempre in lotta per i massimi vertici, c’era l’Edera, anche se per non molto tempo, e soprattutto c’era il mitico Ferroviario con il suo campo di piastrelle all’aperto in Viale Miramare praticamente di fronte alla stazione dei treni, o per meglio dire a metà strada fra la stazione e il cavalcavia di Barcola, lì dove i binari deviano verso la costa del crinale carsico e per di lì viaggiano offrendo ai viaggiatori una vista magnifica sul golfo fino a che non girano verso il nodo di Aurisina dove la linea si biforca nelle due direzioni chiave: Vienna da una parte e Venezia dall’altra. Il Ferroviario aveva anche una molto nutrita sezione di basket e ovviamente le sue partite le giocava sul campo di casa e la descrizione che avete fatto del campo di Valdagno (il Marzotto era nemico storico della Triestina) sembra pari pari la descrizione di quello del Ferroviario. Ogni volta che vi andavamo a giocare c’era la consapevolezza di andare verso una tortura. Con gli anni hanno ricoperto il campo (lasciando comunque aperto ai lati) con un tetto di acciaio, per cui la palla, rimbalzando, faceva con il rimbombo un rumore stranissimo tipo il “ping” dei sonar dei sommergibili. Atterrare dopo un rimbalzo era un’avventura, in quanto atterrare sul duro rendeva l’impatto una specie di stress test per tutto lo scheletro. Non si parla ovviamente di capire dove fossero le righe, tanto più che la superficie piastrellata era una specie di enorme piazza d’armi. Noi del Polet comunque eravamo quelli che meglio affrontavamo questo temutissimo campo, in quanto era la replica del nostro playground, quello che i partecipanti ad una sconvenscion avete potuto vedere. La nostra società infatti ha avuto storicamente due importanti sezioni, il basket e il pattinaggio artistico a rotelle, per cui il campo che ha messo in piedi doveva servire ambo gli sport. Per la cronaca abbiamo prodotto due multipli campioni del mondo, Samo Kokorovec fra gli uomini (gli appassionati di TV Capodistria lo avrete sentito fare il commento tecnico alle gare di pattinaggio su ghiaccio assieme a Mirjana Kramarič-Francè – ora è il Presidente del Polet) e Tanja Romano fra le ragazze, ambedue ragazzi della minoranza allevati e cresciuti nel Polet fin dai primissimi passi sui pattini.

Giocare su un campo del genere voleva dire avere ai piedi corazzate blindate e non certamente i vezzosi scarpini costanti un occhio della testa di moda adesso, perché dopo due allenamenti e una partita gli scarpini si sarebbero disintegrati miseramente. Inoltre i palloni dovevano essere altrettanto resistenti, per cui si usavano i palloni rivestiti di plastica che con la polvere e soprattutto con l’abrasione della superficie dovuta alle rugosità del campo diventavano saponette intrattabili, oppure addirittura dei terribili palloni di gomma prodotti dalla “Tiger” di Pirot che andavamo a comprare in Jugoslavia e che erano quanto di più vicino fosse stato inventato per il basket che ricordasse la famosa “palla magica”, e dunque di lussuosi palloni di cuoio non si parlava neppure: quando sono diventati obbligatori ne avevamo uno solo che durante la settimana era praticamente in cassaforte e veniva esposto e attivato solo per il riscaldamento della squadra avversaria e poi usato in partita. Potete facilmente capire che l’allenamento di ball handling aveva per noi un significato ben diverso di quello inteso ora. Dovevi saper trattare, palleggiare e inviare a canestro le saponette. Insomma, avevamo almeno due marce in più rispetto ai fighetti di oggidì. Credetemi: per maneggiare la Tiger bisognava essere virtuosi per forza.

Del resto le rotelle hanno pesantemente condizionato a Trieste proprio la sua infrastruttura dedicata allo sport di vertice. Quando progettarono il palazzetto dello sport nuovo nel rione di Chiarbola le ingegnose menti dei progettanti escogitarono un sistema per fare in modo che vi si giocasse sia il basket (e gli altri sport di squadra che si giocano su un parquet) che l’hockey. Misero due campi in parallelo, uno con il parquet e i canestri, l’altro rigorosamente piastrellato con le righe per l’hockey e il pattinaggio artistico. Sui lati lunghi montarono due tribune retrattili (comprate in Olanda e costate un occhio della testa) che venivano attivate alternativamente se si trattava di basket o hockey con le curve in cemento a raccordare i due lati brevi. Alla fine ovviamente successe che l’hockey, sport non certamente ricco ma soprattutto in rapido declino di popolarità, sparì del tutto da Chiarbola, per cui, per aumentare la capienza per il basket, dovettero abbattere il muro dietro alle panchine e costruire una nuova tribuna da 1000-1200 posti che ovviamente costò anch’essa una fortuna e che poi dette quello stranissimo look al Palachiarbola con le curve che da una parte finivano con uno strapiombo sul campo, mentre la tribuna era incassata all’interno. Insomma un pasticcio terribile che fra l’altro fece emigrare Stefanel da Trieste proprio nell’anno nel quale poi vinse lo scudetto a Milano.

E infine avete sferrato l’attacco mortale sotto la cintola quando avete tirato in ballo l’argomento figurine. Fin da quando ero piccolo ho avuto una fascinazione inspiegabile per la raccolta delle figurine. Andavo ancora a scuola alle elementari e ricevevo in dotazione dai genitori 30 lire per il biglietto della filovia (la 5) che, se comprato prima delle otto, era di colore verde ed era valido anche per la corsa di ritorno. Ebbene, quando nel ’58 la Triestina ritornò per l’ultima volta in Serie A (dopo aver stradominato la serie B con uno squadrone della Madonna – basti ricordare che a centrocampo giocavano Puia e Mazzero, giocatori poi di lunghissima carriera in Serie A, ma soprattutto le due punte erano Milani, poi plurivincitore di Coppe Campioni con l’Inter, e Petris, primo giocatore della storia ad esordire in nazionale quale componente di una squadra di Serie B), sono andato praticamente tutta una stagione a scuola a piedi per comprare al ritorno tre bustine e così di nascosto alimentare la mia collezione che tenevo accuratamente nascosta, perché se i genitori e soprattutto la severissima nonna carsolina avessero saputo come scialacquavo i soldi mi avrebbero menato (metaforicamente, sia ben chiaro, ma come lo facevano loro, trattandoti da merda infame, era molto peggio che non un paio di sonore sculacciate) di brutto. Ed era grande festa quando i vari parenti sganciavano le 100 lire di contributo perché finivano direttamente in 10 bustine, ovviamente non comprate tutte assieme per non provare uno choc incontrollabile.

Il vizio non mi ha mai abbandonato ed ancora adesso, alla tenera età di 70 anni suonati, regolarmente ogni anno faccio la raccolta delle figurine Panini dei calciatori. Per finire rendo pubblico un consiglio che mi ha dato Ciccio (sapevo anche nome e cognome che però ora mi sfugge – Lofoten, aiutami!), mitico personaggio del basket bolognese grande amico di Lorenzo Sani, leggendario per la sua sfida in uno contro uno nientemeno che contro Ray Sugar Richardson e anche perché durante i campionati europei di Zagabria dell’89 trascorse tutti i campionati in tribuna stampa esibendo all’entrata ai terribili cerberi della sicurezza l’abbonamento bolognese ai mezzi pubblici, a sua volta grande collezionista. Se ne avete i mezzi comprate direttamente tutta la scatola di figurine, perché in una scatola sono distribuite in modo molto più regolare e avrete molte meno doppie. E’ molto valido, l’ho provato e funziona.