Ma quanto siamo diventati tutti più filosofi, più pensanti, più intelligenti, più desiderosi di sapere dopo tre mesi che siamo chiusi in casa! Orazio aveva ragione: solo attraverso gli “ozi” l’uomo può raggiungere il suo massimo potenziale intellettuale. Cioè in definitiva per essere saggi bisogna essere pigri. Conoscete benissimo il mio teorema fondamentale che qui ha un’altra conferma. C.V.D.

Solo leggere i vostri commenti mi ha sfiancato e purtroppo sono arrivato alla solita  conclusione: ci stiamo ricominciando ad avvitare nel consueto circolo vizioso che prevede che ognuno rimanga sempre della sua opinione indipendentemente da quanto gli dicono gli altri, non solo, ma visto che non sfonda comincia a produrre pezzi fiume, citando quelli che per lui sono grandi esperti, mentre ai contrari appaiono solo superficiali ciarlatani, che nelle sue intenzioni dovrebbero “convertire” gli oppositori. Con l’altrettanto logica conseguenza che, leggendo quello che loro ritengono stupidaggini, quelli che non sono d’accordo non fanno che rafforzare le loro opinioni. E via dicendo in una radicalizzazione sempre più marcata che alla fine porta a liti verbali che ormai stiamo già sfiorando.

Personalmente ho sempre ascoltato tutti. Con alcuni ero d’accordo, con altri meno, altri ancora mi sembravano dire stupidaggini totali per non dire cazzate sesquipedali. Ora mi dovete spiegare perché dovrei continuare ad ascoltare quelle che continuerò sempre a considerare cazzate. Chi mi costringe? Dice: ma così non ascolti tutte le campane. Rispondo: averle ascoltate due, tre volte che ripetono sempre le stesse cose come un disco rotto penso mi esima da dover continuare ad ascoltarle a oltranza. Il mondo è bello perché è vario, però bisogna sempre avere a mente che dall’altra parte della campana di Gauss che distribuisce l’intelligenza fra l’umanità rispetto a Einstein ci sarà statisticamente uno altrettanto immensamente stupido. L’impressione è che una volta questa gente finiva in manicomio o a fare lo scemo del villaggio, oggi invece grazie ai social riesce addirittura a parlare, non solo, ma indossando per ragioni esoteriche strani gilet arancioni fa addirittura dimostrazioni nella capitale.

Sia ben chiaro: su questo sito potete continuare a parlare dei massimi sistemi, anzi continuo ad invitarvi a farlo, però per il vostro bene vi avverto che produrre pezzi interminabili non aiuta certamente la causa che state perorando. Per quanto mi riguarda voglio stavolta essere lapidario prima di passare al tema di questo intervento, quello che mi preme veramente fare.

Capitolo religione: leggo “la Chiesa cattolica nella storia ha fatto molto più bene che male”, mi vengono le convulsioni, ma per fortuna leggo Boki e Cicciobruttino che dicono parola per parola quello che volevo dire io. Nessun fondamentalismo ha mai fatto bene all’umanità, mai, per definizione, assiomaticamente quasi. Tanto più una “Verità” rivelata da un “Libro” che si tenta di inculcare alla gente.

Per la politica vale la stessa cosa: ogni fondamentalismo porta a disastri. Qui siamo in presenza di “religioni” laiche che pretendono di indirizzare la gente verso una specie di fine comune a tutti. Cosa ovviamente impossibile perché al mondo siamo una varietà infinita di teste pensanti (e meno – anzi, purtroppo proprio la massa critica di cervelli che vanno all’ammasso permette a queste “religioni” di affermarsi, visto che con le loro lapidarie convinzioni surrogano alla mancanza di spirito critico che affligge la grande maggioranza dell’umanità). Però lasciatemi dire una cosa: fra una “religione” che predica l’uguaglianza fra tutte le persone e una che predica la supremazia di qualcuno su qualche altro per ragioni di superiorità razziale o che comunque predica che al mondo ci sono persone privilegiate e altre che invece al mondo ci sono solo per servire le caste privilegiate preferirò sempre le prima, tutta la vita. Per cui solo parlare di parallelismo fra comunismo e nazi-fascismo personalmente a me sembra aberrante. Su questo tema sono incrollabile. Chiunque tracci parallelismi fra queste due visioni del mondo, fermo restando che ogni totalitarismo è per definizione terribile, ma è la inevitabile conseguenza finale che nella mia percezione è irrilevante ai fini del discorso teorico, mi crea proprio fastidio fisico. Per cui siete avvertiti: potete continuare ovviamente a scrivere quello che volete, ma sappiate che ogni volta che leggo quelle cose provo una rabbia sorda e incontrollabile.

E finalmente vengo alle cose veramente importanti: Stefano mi sfida di esprimere le mie preferenze musicali per creare una base sulla quale poi ognuno possa poi discutere delle sue preferenze. Lo faccio con grande piacere però mettendo subito bene le mani avanti: da quanto ho letto in tutto questo tempo io sono una specie di corpo estraneo ai musicofili di questo blog, per cui non faccio assolutamente testo.

Voglio partire da lontano: come sapete sono nato nel 1950 a Trieste di famiglia di ascendenza austro-ungarica a 360 gradi, per cui la musica che ha condizionato quasi geneticamente la mia infanzia è stata la musica dei miei genitori e segnatamente di mia mamma, cantante a tempo perso e maestra di pianoforte. L’opera di cui era appassionata sfegatata (conosceva a memoria praticamente tutto Puccini) non mi ha mai appassionato (non sono mai riuscito a capire perché uno debba cantare per cinque minuti per avvertire che il pranzo è servito), ma il resto sì, e molto, parlo di operette e valzer. Se volete farmi commuovere suonatemi ancora oggi le prime note del Bel Danubio Blu o di Sangue Viennese o fatemi ascoltare l’Ouverture del Pipistrello. Mi dispiace, ma son fatto così e non ci posso far niente. Con questo background quasi genetico è successo che a otto anni sentii Domenico Modugno cantare per la prima volta cantare “Volare” a Sanremo. Solo quelli della mia età potranno capire l’emozione di sentire per la prima volta quelle note. Sono emozioni indimenticabili che condizionano per sempre la percezione che avrai della musica. Entrato nell’adolescenza seguendo mia cugina (mia perfetta coetanea – siamo stati concepiti la stessa notte! – e dunque non tanto cugina quanto per me vera e propria sorella, cosa che è perfettamente tale e quale ancora adesso), che nelle sue prime pulsioni sentimentali si era invaghita di Elvis (e dalle torto!), vidi i film che faceva all’epoca e mi piacque tantissimo come cantava. Immaginarsi la sorpresa quando andando indietro nel tempo a scoprire cosa avesse cantato prima mi imbattei in It’s Now Or Never o in Are You Lonesome Tonight? e infine, andando indietro ancora, mi si aprì tutto il capitolo del rock-and roll di qualche anno prima (all’epoca). Scoprii Elvis, scoprii che cantava canzoni di un nero scatenato che si chiamava Little Richard Penniman, o di un altro nero ancora più bravo che si chiamava Chuck Berry, scoprii tutta la saga della Sun Records con Carl Perkins, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis, Roy Orbison, Charlie Rich, non solo, ma andando ancora indietro nella storia della Sun Records scoprii che Sam Phillips prima dei succitati aveva registrato tanta musica nera con B.B. King, Ike Turner, Rufus Thomas, Little jr. Parker e tanti altri. Mi si palesò un mondo affascinante di musica trascinante che fece sì che, da perfezionista come sono quando incontro cose che mi affascinano, di quel periodo ho voluto sempre sapere, e la cosa dura intatta ancora oggigiorno, tutto quello che fosse possibile sapere. Per cui siete avvertiti: per me la musica di base è quella, il rock and roll primordiale della fine degli anni ’50. Non ci piove: quella è la mia musica di riferimento, la mia stella polare, e quella sempre sarà.

Però un bel giorno del gennaio ’64, quando stavo riprendendomi da una bruttissima orchite conseguenza di orecchioni mal curati, la stessa mia cugina venne a farmi visita portandomi a casa un disco che aveva appena comprato di un complesso inglese che faceva strage a casa sua. Mi disse: “Ascoltali, vedrai che sono bravi” e mise su…”Last night I said these words to my girl…please, please me, oh yeah, like I please you” con la conseguenza che, appena guarito, feci un immediato raid al negozio di dischi sotto casa e dando fondo ai miei risparmi comprai due 45 giri: “She Loves You” e “Twist And Shout”. Un anno dopo circa mi ricordo che, arrivato a scuola, un compagno mi disse: “Ma hai sentito l’ultimo disco dei Beatles?” “No” “E’ assurdo, roba mai sentita, c’è Paul da solo che canta un lento con i violini in sottofondo” “Ma va’! Paul da solo con violini? E com’è?” “Si chiama Yesterday e devo dirti che malgrado tutto non è per niente male”.

Fu un periodo di bombardamento continuo di musica incredibile che ti assediava da ogni lato. Da una parte c’era il complesso dei grandi rivali degli amati Beatles che produceva un pezzo che anche noi dovemmo ammettere che non era male e si chiamava “Satisfaction”, e poi dall’altra parte dell’oceano c’era un giovanotto con una strana voce nasale che ci cantava (a noi idealisti quindicenni, lo ricordo per fissare il periodo storico) “How many roads must a man walk down before you call him a man?…the answer is blowing in the wind”.

Quello che voglio fare con questa ricostruzione cronologica è tentare di spiegare perché noi baby-boomers del secondo dopoguerra saremo sempre una casta compatta legata al nostro mondo che abbiamo vissuto in diretta nei nostri anni più ricettivi proprio mentre si svolgeva in tempo reale. Abbiamo tutta una serie di ricordi e emozioni impagabili che faranno sempre sì che saremo convinti pervicacemente che siamo solamente noi i depositari della “vera” musica” e che quanto è venuto dopo è semplicemente una replica, o se volete uno sviluppo che come ogni sviluppo complica sempre più le cose fino a finire nella sfera di quelle che noi di quell’epoca definiamo seghe mentali del “rock progressivo” che ci fa cagare, che inevitabilmente porta prima o poi al declino. Parlate con qualcun altro della mia generazione e vi dirà esattamente le stesse cose che vi ho detto io. E’ inevitabile: l’ “imprinting” che abbiamo subito è stato troppo forte, rimarrà sempre indelebile e ce lo porteremo nella tomba. Compiangendo tutti quelli che non sapranno mai e mai riusciranno a capire quanto noi della nostra generazione abbiamo provato vivendo in diretta gli anni cruciali della musica popolare del 20-esimo secolo.

Poi ovviamente con gli anni uno si evolve e con gli anni si calma, anche se la base rimane sempre quella. Dal primigenio rock-and-roll il primo passo che si fa è ovviamente quello verso il blues e in genere la musica nera, passo da me espletato in tempi rapidi e, penso, proficui. Da quella esplorazione ho capito una cosa: che sono bianco di origine austro-ungarica, che il mio codice genetico musicale ha tutt’altre radici, per cui di quella musica apprezzo la spontaneità, l’anima che esce prepotentemente da quella musica nata in condizioni sociali catastrofiche, e dunque mi piace il blues spontaneo, quello delle origini, disadorno, verace insomma, Robert Johnson per dire o Bessie Smith se volete, per quanto sia già un tantino troppo sofisticata per i miei gusti. Tutto quello che da esso si è sviluppato ricorda in me quanto provo per Bach nel campo della musica classica. Posso apprezzarlo mentalmente, razionalmente, ma non suscita in me alcuna emozione, per cui non mi interessa. E dunque per esempio di jazz nulla so né nulla anelo di sapere, come proprio nulla mi interessa di sapere della musica funky per non parlare di rap e affini.

Di converso invece, sempre essendo bianco di origini centro europee, più passano gli anni più mi interessa l’altro filone derivante dall’andare a ritroso nella storia del rock-and-roll e cioè, passando per il rockabilly che è sempre e comunque la mia musica di sottofondo di default quando faccio qualcosa, la musica country, quella che si è sviluppata partendo da quello che si può a ragione definire il blues bianco dei minatori e in genere dei proletari bianchi di origine europea, e da ciò tantissimi rimandi alla musica britannica, sia essa inglese o celtica, dei monti Appalachi, parlo delle regioni gravitanti sulla Virginia dell’Ovest. Partendo dalla Carter Family, quella che ha di fatto fatto conoscere il country a tutta l’America, passando per tutto il filone di musica genuina che si è sviluppata da quell’embrione per arrivare a tutta una serie di autori e di musica che mi appassiona sempre di più, sia per la genuinità e alle volte poesia disadorna, ma sempre poesia, dei testi che per la musica, almeno per me a volte di struggente bellezza. Partendo da quel genio assoluto che è stato Hank Williams che, prima di morire praticamente di troppo alcool all’età di 29 anni ha creato tutta una serie di standard diventati ormai quasi canzoni popolari americane, prima fra tutte “I’m So Lonesome I Could Cry” pezzo di una semplicità e contemporaneamente di una complessità estrema che è stato cantato praticamente da tutti e che a me, nella versione originale ha sempre fatto piangere quando la ascolto. A proposito, inciso: la discussione sulla versione definitiva di una canzone per me non si pone neppure. La versione definitiva è quella dell’autore, l’unico che sa cosa voleva dire con quel pezzo. Punto. Poi c’è il periodo del Bakersville Sound con due giganti quali Buck Owens e Merle Haggard e infine il periodo d’oro dei grandissimi cantautori fuori dagli schemi patinati e melensi di Nashville, il leggendario quartetto dei Highwaymen, Johnny Cash, Willie Nelson, Kris Kristoffersen e Waylon Jennings, e delle straordinarie autrici ed interpreti femmine, Dolly Parton, Loretta Lynn, Tammy Wynette, Emmylou Harris e Linda Ronstadt. Per dire: “I Will Always Love You” è stata portata a fama mondiale da Whitney Houston, cantante nera, dunque per definizione “soul”. Ebbene, nella sua patinata e plastica esecuzione non c’è neanche la minima parte del “soul” che c’è nella meravigliosa e struggente versione dell’autrice della canzone, nientemeno che Dolly Parton (donna tanto appariscente e a prima vista volgare e rozza quanto in effetti estremamente intelligente e ben conscia di tutto – famosa la sua frase: “ragazzo mio, non sai quanti soldi ci vogliono per apparire così volgari”).

E infine il country ha per me un pregio enorme che non riscontro in altri generi musicali. Come sapete io amo le definizioni che dicono tantissimo in poche parole, che colgono la sostanza in una battuta. Per dare il sommo esempio, quando Amleto dice “Essere o non essere, è questa l’ ultima domanda” dice in poche parole tutto della vita su questa terra. Non c’è altro da aggiungere se non chiarire e sviluppare, ma più in profondo è impossibile andare. Nella musica country di queste frasi ne trovo a bizzeffe. Kris Kristoffersen, che è per me il massimo autore di questo genere, strappa il cuore quando in “Sunday Morning Coming Down”, canzone che non riesco mai a finire di ascoltare senza versare almeno una lacrima (anche perché mi appare molto autobiografica), dice nel ritornello: “And there’s nothing short of dying half as lonesome as the sound on the sleeping city sidewalks and Sunday morning coming down” oppure quando dice in “Nobody Wins”, canzone su un amore finito: “The loving was easy, it’s the living that’s hard”. Eccetera.

E proprio per finire questa lunghissima confessione vorrei infine rivelarvi quale è il mio autore preferito, che penso pochissimi di voi conoscono e per il quale ho un debole assoluto. Si chiama Tom T. Hall ed è salito per la prima volta alla ribalta scrivendo alla fine degli ’60 una canzone di grandissimo successo (cantata da Jeannie C. Riley) che raccontava una bellissima storia di una madre un po’ anticonformista che distrugge rivelando altarini nascosti la commissione etica del liceo della figlia, canzone che si chiamava “Harper Valley PTA”. Nella musica country è un’icona, conosciuto e riverito come The Storyteller proprio per le storie che mette in musica. Lo amo proprio perché è capace in una frase di condensare tutto un discorso. Alcuni esempi: in una storia nella quale racconta dell’intervista che da giovane fece a un vecchio cowboy la risposta a quale fosse il segreto della felicità fu: “Faster horses, younger women, older whiskey and more money”, nella sua canzone più famosa (per la cronaca non riesco mai a finire di ascoltarla senza piangere – da vecchio ho la lacrima sempre più facile) “Old Dogs, Children e Watermelon Wine” un vecchio inserviente nero che gli fa compagnia a tarda notte in un bar durante l’ultimo bicchiere e che gli racconta la sua vita a un dato momento, per spiegare perché le cose elencate nel titolo siano le uniche per le quali valga vivere, dice: “Old dogs care about you even when you make mistakes, and God bless little children while they’re still too young to hate”, oppure ancora, e qui capirete perché quest’autore mi è tanto caro, quando nella sua canzone che ha avuto più successo anche in campo pop, “I Love”, una specie di semplice lista della spesa delle cose che lui ama, dice nell’ultima strofa: “I love honest open smiles, kisses from a child, I love winners when they’re crying, losers when they’re trying, music when is good, and life.”

Questa strofa mi fa sempre morire, perché, se fossi poeta, sarebbe quello, parola per parola, che scriverei io, se dovessi elencare le cose che amo di più.