Devo confessare che mi sono messo alla tastiera molto malvolentieri. Avete toccato tantissimi argomenti e li avete sviscerati da tutte le parti, per cui non avrei nulla da aggiungere se non ribadire quello che ho scritto millanta volte e, visto che sono uno testardo che quando si forma un opinione poi non la cambia più a meno di cataclismi, sarebbe poi sempre e comunque la medesima cosa. Per dire della politica e dell’economia: come ho detto tantissime volte di economia e dei suoi meccanismi pseudo matematici che la regolerebbero (ho la netta impressione che ognuno pieghi le sue analisi matematiche ad idee che ha già da prima, ma non intendendomi della materia il mio rimane sempre e solo un sospetto – inutile aggiungere che in cuor mio sono assolutamente convinto che sia così) proprio non mi intendo, ma sono convinto di una cosa che sta molto a monte di tutti i vari ragionamenti particolari: che debba sempre e comunque essere la politica a indirizzare l’economia e mai, ma proprio mai viceversa. Ferme restando le regole base della competitività, della concorrenza (leale e pulita, immaginarsi: voi ne avete mai vista veramente una?) e delle basilari leggi della domanda e dell’offerta, rimane per me incrollabile il fatto che una comunità di persone sia una polis e dunque, come dicevano i greci, guidare una polis significa fare politica.

Che dunque viene prima di ogni altra cosa. Prima di ogni altra cosa viene il bene comune, la dignità personale di ciascuno, i suoi diritti ad avere un’istruzione e un lavoro indipendentemente dalla famiglia dalla quale proviene, tutte cose che devono essere, scusate la parola, imposte dalla comunità a tutti e che devono essere sempre e comunque rispettate. Per cui deve essere sempre e comunque lo Stato a dirigere l’economia mantenendo saldamente sotto il proprio controllo i settori chiave, istruzione e cultura, salute, ordine pubblico, ma anche l’economia di interesse strategico (soprattutto energia, trasporti, infrastrutture e finanza), lasciando ai privati di sbizzarrirsi come vogliono nei settori, ri-scusate la parola, perfettamente superflui che si riferiscono alla sfera del consumismo, di tutto quello cioè che per me è totalmente e perfettamente inutile nella “vera” vita di ciascuno di noi.

Per queste idee sono un bieco comunista? Ebbene, se essere comunista significa avere queste idee, ebbene lo sono. Dalla nascita. Anche se in vita mia mai ho votato comunista e personalmente l’ideologia comunista mi è perfettamente estranea come lo sono tutte le ideologie (e religioni ovviamente) che sono per definizione totalitarie, nel senso che o sei con noi o sei contro di noi, che siamo gli unici a possedere la “Verità”, e se sei contro di noi ti dobbiamo emarginare o eliminare. Io sono sempre stato uno che ha a cuore la libertà individuale (parafrasando: come io non rompo le palle al prossimo così pretendo che non vengano spaccate le mie) che però sempre e comunque termina quando invade la sfera di libertà del prossimo. Però, fintanto che sono nello spazio della mia libertà personale, devo avere la possibilità di pensare come pare a me e soprattutto dire e fare come pare a me. Cosa che ogni ideologia non ammette proprio per principio. Sono dunque democratico fino al midollo e altrettanto inguaribilmente di sinistra. Sono perfettamente convinto che il cuore sta a sinistra e la tasca a destra. Cosa che la destra non capisce o, cosa che ritengo altamente probabile, fa finta di non capirlo. Ed è questa la ragione per cui, sentendomi quasi geneticamente socialdemocratico nel senso che questa definizione ha nell’Europa del nord, quella per me civile, avrei tanto voluto essere nato in Danimarca (suicidi e depressione? Provate voi a vivere allegri in luoghi dove per metà anno non vedono il sole e normalmente fa un freddo cane – ecco perché la Danimarca, lì non è così grave).

Ma non era questo quello di cui volevo parlare e che mi ha fatto sedere alla tastiera. Sembra che la fase più virulenta dell’epidemia sia stata superata (a meno che qualche idiota non insceni strani eventi sportivi fuori da ogni controllo che generano pericolosi focolai pensando di essere invulnerabile) e dunque si può già pensare alla sconvenscion. Per la cronaca Andrej Vremec si sta già interessando e sondando il terreno. A questo punto vorrei tanto che vi sentiste fra di voi attraverso le vostre reti social per trovare un periodo che possa andare bene alla maggioranza di voi. Per me il periodo migliore sarebbe la seconda settimana di luglio. Datevi da fare e dite quando vi andrebbe bene. Dopo essere stati tanto tempo isolati e confinati a casa penso che una bella rimpatriata all’aperto in qualche bella osmica con vista mare o nel mezzo della campagna in qualche luogo isolato per ritrovarsi e chiacchierare fra vecchi amici sia una cosa che vi (e soprattutto “mi”) farebbe piacere. Almeno a giudicare da quanto ho provato io quando sono stato tre settimane fa per la prima volta dopo tre mesi a cena con gli amici in un ristorante in Friuli. E’ sembrato un sogno: almeno a me ha dato l’impressione di ritornare alla vita dopo tre mesi passati in una specie di ibernazione controllata, tre mesi che si sono quasi dissolti, come se non fossero mai esistiti, appena ci siamo seduti al tavolo e abbiamo cominciato a chiacchierare normalmente senza Skype, Zoom e telecamere varie a fare da insuperabile barriera. Il momento del brindisi con i bicchieri che tintinnavano è stato, almeno per me, semplicemente commovente. Forse non solo per me, in quanto mi è sembrato di vedere più di qualche occhio umido.

Prima però di lasciarvi a decidere la data della nostra rimpatriata annuale vorrei ancora ritornare brevemente su un argomento che avete introdotto, quello del ritiro dalla vita attiva, dalla propria professione per affrontare la fase successiva della propria vita, quello cioè, detto brutalmente, della pensione. Ovviamente è un argomento che mi tocca molto da vicino, visto che è la condizione che vivo personalmente da un anno esatto. Lasso di tempo abbastanza lungo per trarre già le prime considerazioni e riflessioni.

Detto in breve secondo la mia esperienza il brusco passaggio fra una fase e l’altra è la perfetta cartina di tornasole che in un momento molto concentrato ti spiattella in faccia il bilancio nudo e crudo di quanto hai fatto, di come ti sei comportato, ma soprattutto se quanto hai fatto meritava di essere fatto e se ti ha dato soddisfazione, ti ha appagato, ti ha fatto capire se quanto hai fatto fino a quel momento ha fatto sì che il mondo attorno a te sia stato migliore o peggiore rispetto al fatto che tu possa non essere esistito. In breve se hai lasciato qualcosa per cui varrà la pena ricordare che sei vissuto. Se trovi qualcosa che ti faccia credere che sì, verrai ricordato per qualcosa, allora puoi tranquillamente vivere avanti e dedicarti a tutto quello che hai dovuto sacrificare o mettere da parte fino a quel momento e, credetemi, è una bellissima sensazione, proprio perché puoi fare quel cavolo che vuoi, che ti piace fare, ma soprattutto puoi farlo quando ti va di farlo e nel contempo non fare un emerito tubo quando non ne hai voglia. E’ un’ineffabile sensazione di libertà intellettuale che ti appaga profondamente.

A me, scusate la presunzione, è successo e dunque non ho avuto esattamente alcun tipo di trauma nel passaggio, anzi, come detto, mi sono sentito sollevato e liberato. Mi sono però spesso chiesto cosa succede invece alle persone che, di fronte al rendiconto improvviso sull’utilità della propria vita, si accorgono con raccapriccio di aver vissuto una vita anonima, piatta, in definitiva inutile. E la cosa secondo me ancora più angosciosa è se si accorgono che hanno anteposto il lavoro, il desiderio del successo e dei soldi, tutte cose che a una certa età ti accorgi che sono del tutto superflue per non dire deleterie per la salute, mentale ma anche fisica, agli affetti personali, alla famiglia, ai figli, e in genere ai rapporti umani, quelli che in effetti determinano che persona tu sei. Anzi, sei stata. E se non lo sei stata, non puoi più rimediare.

Deve essere una sensazione terribile e non voglio neppure pensare cosa si possa provare. In questo caso non credo che esista, e Stefano mi scuserà, terapia possibile, e la pensione diventa una gabbia insopportabile nella quale qualunque cosa tu faccia ti sembrerà un palliativo, o meglio una specie di droga per provare a dimenticare di essere stato inutile, se non dannoso. Cosa che sicuramente sei stato per qualcuno se tutto quello che hai pensato fosse importante fosse fare soldi.

Insomma, il momento della pensione è un momento chiave che, penso, per tutti quello che lo vivono, è una rivelazione nel vero senso della parola. Un po’, se volete, un giudizio che i credenti posticipano al momento della morte quando l’Essere superiore ti giudicherà e ti manderà nei vari posti dove loro pensano si possa andare. Solo che questo momento avviene quando sei ancora saldamente su questa terra. Penso però che se il giudizio è negativo quello che si vive da quel momento in poi è, scusatemi, un corposo anticipo dell’inferno che comunque ti attenderebbe dopo.

Ci sarebbe poi da parlare della pensione degli sportivi di vertice. Calciatori, cestisti, pallavolisti, per non dire atleti, ginnasti, tutti con le articolazioni scricchiolanti, ossa doloranti perché più volte rotte, caviglie e polsi con ossa e ossicini che sono dovunque meno dove dovrebbero essere, legamenti che a volte sono solo un ricordo…pallanuotisti, piloni di rugby che diventano mongolfiere…che lo sport di vertice non sia poi così sano?