“Non credete troppo alle autorità. Non ascoltate i maestri che dicono di saperla lunga, gli allenatori che pensano di potervi miracolosamente far andar forte, fidatevi di poche ma buone persone. Più uno parla di solito meno sa quindi non dategli retta. Non ci sono scorciatoie. Lavorate, studiate e inseguite i vostri sogni”.

Scusate, ma quando sento queste parole, dette da una ricercatrice di matematica alla Ecole Polytechnique Federale di Losanna, una dottoressa con master a Cambridge che sta studiando le equazioni differenziali parziali non lineari che sorgono nella fisica matematica, e che intanto ha vinto l’oro nella gara in linea del ciclismo femminile alle Olimpiadi di Tokio, sarà anche l’età, ma mi commuovo fino alle lacrime e penso a tutto quanto di bello sa offrire lo sport, di quali favole vere, solari, istruttive e educative nel senso più nobile di questo aggettivo, sia capace. Insomma, per restare a quanto scritto nell’ultimo post, queste sono le favole che lo sport offre e che dovrebbero essere immortalate in un film: niente di morboso e sofferto, ma semplicemente bello e edificante.

Dovrei scrivere della vittoria dell’Italia contro gli irriconoscibili tedeschi (che avevo evidentemente sopravvalutato alla vigilia, visto che si sono rivelati un po’ troppo poco perspicaci anche per le mie più pessimistiche previsioni) o della figuraccia assurda fatta dagli americani contro la Francia, Francia che ha dovuto vincere due volte la partita, una nel terzo quarto e una poi nell’ultimo dopo che l’ineffabile Collet aveva messo in campo un quintetto assolutamente psichedelico all’inizio dell’ultima frazione, almeno voi pensate che dovrei parlarne perché queste sono le cose che a voi interessano. E invece a me interessa lo sport e per me tutto questo passa non in secondo, ma in infimo piano, dopo aver assistito alla più bella favola sportiva che mai abbia vissuto in 50 anni di carriera.

Pensate a come sarebbe la sceneggiatura del film. Si comincia a Vienna in una normale famiglia borghese, nella quale la piccola Anna Kiesenhofer ha un particolare talento per la matematica, ma contrariamente ai frusti stereotipi che accompagnano le ragazze che si danno agli studi scientifici (normalmente percepite come brutte, sgraziate e goffe secchione), lei è una normalissima ragazza tanto carina quanto appassionata di sport e segnatamente del ciclismo, anche se è uno sport che nella sua natia Austria non è che sia particolarmente popolare. In ogni buona famiglia che si rispetti comunque lo studio viene prima di tutto e la brava e intelligente Anna compie un magnifico percorso accademico, dapprima prendendo la laurea nella sua città natale e poi conseguendo un master addirittura alla più prestigiosa di tutte le Università europee per la sua materia, e cioè Cambridge. Trasferitasi a Losanna a studiare le famose equazioni di cui sopra (non chiedetemi cosa sono: per quanto io fossi bravo in matematica, oltre le equazioni differenziali normali non ci sono mai arrivato, e anche quelle mi sembravano un osso molto duro) non dimentica comunque il ciclismo che continua a praticare anche a livello agonistico, tanto da essere anche l’unica ciclista austriaca di valore internazionale. Cinque anni fa il lavoro di ricercatrice, diventato più o meno routine, comincia ad offrirle qualche spazio in più per praticare il suo sport preferito a livello un tantino più serio e infatti comincia anche a ottenere qualche risultato importante. Sempre comunque molto lontano dai vertici mondiali che si estrinsecano nello squadrone olandese, che fa e disfa nel panorama internazionale, col corollario delle altre grandi nazioni, tipo Italia, Germania, Australia, USA eccetera. Però intanto si allena e riesce a conquistare un posto per le Olimpiadi di Tokio quale unica componente della squadra austriaca di ciclismo su strada. Anche perché di altre buone proprio non ce ne sono, per cui, anche per ragioni di simbolica presenza, il Comitato Olimpico austriaco le dà la possibilità di competere. E allora nella gara individuale mette all’opera tutte le sue conoscenze matematiche. Dopo aver visto la gara maschile e aver fatto gli opportuni calcoli si rende conto che, essendo lei una emerita signorina nessuno, se parte subito dopo il via magari assieme a qualche altra “desesperada” è sicura che la lasceranno andare, che potrà prendere un grosso vantaggio e poi starà solo a lei resistere per arrivare il più lontano possibile. Detto fatto: parte al chilometro uno assieme a altre quattro compagne di avventura e va. Vai che vai bene a un dato momento il vantaggio arriva attorno ai 10 minuti, mentre dietro, come spesso succede quando una squadra è nettamente superiore, nessuno si prende la briga di andare loro dietro aspettando che si muovano le olandesi, le quali invece aspettano che a muoversi sia qualcun altro (“Sì, noi lavoriamo e poi ci infilzate: tie’! – pensate che siamo nate ieri?”). In testa intanto la buona Anna, che rispetto alle altre fuggitive è di tutt’altra pasta, ma nessuno lo sa, aspetta che le altre si spompino e su una salita a 40 km dall’arrivo, quando il vantaggio sul gruppo è ancora di sei minuti, stacca le altre e si invola da sola. Nessuno la calcola e l’attenzione di tutti si rivolge a quanto succede dietro nella battaglia delle grandi. Però non di vera battaglia si tratta, ma di scaramucce disorganizzate nelle quali anche le olandesi sembrano corrersi una contro l’altra (altra lezioncina da trarre dal film: quando una squadra è formata da quattro capitani e nessun gregario non ne può venire fuori nulla di buono) e alla fine la brava Kiesenhofer arriva sul circuito finale dell’autodromo di Fuji con ancora quasi cinque minuti di vantaggio. Il resto è tutta apoteosi. Starebbe qui al regista del film trovare le inquadrature e il taglio giusto per celebrare questo trionfo (l’unica cosa che non vorrei vedere sarebbe qualche dissolvenza su di lei che lavora sul suo computer a Losanna, sarebbe troppo kitsch), e soprattutto di trovare la musica giusta che accompagnasse l’ultimo trionfale rettilineo davanti all’incredulo pubblico giapponese (al 50% della capienza: il ciclismo si svolge in un’altra prefettura che ha altre regole anti-Covid). Come finale potrebbero prendersi qualche licenza poetica: magari durante la premiazione con l’oro al collo potrebbe aprirsi sullo sfondo uno squarcio nelle nubi che avvolgono il Fujiyama per 8 mesi all’anno, e la sacra montagna giapponese potrebbe così dare il suo sigillo e la sua approvazione alla storica impresa della dottoressa austriaca. Ricorderebbe forse un po’ troppo il logo della Paramount, ma insomma ci starebbe, anche se è in realtà impossibile che ciò accada.

In tutto ciò, che è già magnifico in sé, io vedo anche un’importante morale (la famosa morale della favola) che si può trarre da questo racconto. Pensate un po’ ad un universo parallelo nel quale la giovane Anna avrebbe abbandonato l’attività accademica per dedicarsi a tempo pieno al ciclismo (cosa che per fortuna nello sport femminile, dove non c’è vero professionismo se non per un pugno di atlete di vertice, è più difficile, molto diverso da quanto succede fra i maschi, e infatti per esempio Matej Mohorič, posto a suo tempo di fronte allo stesso dilemma, optò per il ciclismo professionistico). Avrebbe ottenuto sicuramente risultati più importanti e gratificanti dal punto di vista sportivo. Però sarebbe arrivata a Tokio come qualcuna da tenere d’occhio e mai l’avrebbero lasciata andare in fuga. E mai avrebbe vinto l’oro. Se volete, dunque, potete anche concludere che a volte la vita è giusta e la virtù viene ricompensata in modo abbondante quando forse meno te l’aspetti.

Devo dire che di fronte a questo episodio tutto il resto sbiadisce e diventa chiacchiera. Servono anche cose come queste per mettere le cose nella giusta prospettiva. Per cui lascio a voi parlare di cosa succede a Tokio, tanto ce ne sarà ancora di tempo anche per il sottoscritto di intervenire. Io vorrei solamente dire ancora qualcosa sulla Cerimonia inaugurale che ho seguito sulla Rai, convinto com’ero che il duo Bragagna-Velasco sarebbe stato all’altezza di un’ottima telecronaca, mentre in realtà, una volta constatato l’abisso nel quale mi sono lasciato coinvolgere, la replica l’ho guardata poi sulla Tv slovena, dove invece il commento è stato nettamente, di gran lunga, migliore di quanto mi attendessi.

Premessa: non so perché, ma già da piccolo ero inesorabilmente attratto dalla geografia politica e dalle bandiere, tanto che per esempio a 11 anni, quando l’Africa ufficialmente (solo quello) si decolonizzò, mi misi di buona lena a imparare a memoria nome, collocazione geografica, bandiera e nome della capitale, di tutti i nuovi stati che vi erano nati. Passione che mi è poi rimasta e infatti il più bel libro che mai abbia avuto in regalo e che tratto come una reliquia è stato un libro che mi regalò per il mio compleanno Sandro Vidrih che conosceva, essendo stati amici dalla più tenera età, questa mia passione e che si intitola “The Flags of the World”, scritto dalla massima autorità mondiale in materia, un americano che, tanto per dire, disegnò di persona la nuova bandiera della Guyana quando divenne indipendente dalla corona inglese. Dunque sono ferrato in materia, per cui quando durante la sfilata il buon “mi so tuto” Bragagna ha cominciato a inanellare strafalcioni a spron battuto non credevo alle mie orecchie. Dopo aver piazzato Guam (isolotto della Micronesia, dunque Oceania, sotto amministrazione americana per ragioni di basi militari navali e aeree) in Asia e aver piazzato il Belize (stato centroamericano a suo tempo già Honduras britannico) nei Caraibi, e dopo aver sostenuto che nel Madagascar (che è sempre stato colonia francese) si parlasse portoghese (forse confondeva con il Mozambico), finalmente ha detto una giusta quando si è riferito a Barbados come a un’unica isola, aggiungendo che dire andare “alle” invece che “a” Barbados è sbagliato, ma subito dopo ha definito Mauritius (altra grande isola singola) come un arcipelago. Insomma un disastro che non mi sarei mai aspettato. Per non dire che aveva accanto a sé Velasco che ha fatto ogni tanto parlare del più e del meno invece di sfruttarlo per la sua enorme esperienza sia sportiva che sociale e politica, e che dunque avrebbe avuto di che dire del significato delle Olimpiadi, dello spirito olimpico, insomma avrebbe dovuto spaziare sul suo campo, quello nel quale è imbattibile, invece di parlare di cose tutto sommato sommamente futili.

Tornando alle bandiere sono contento di poter rispondere molto facilmente alla domanda, molto pertinente, che pone Gabriele, sul perché ci siano tantissimi stati che hanno bandiere di colore verde-rosso-giallo. A parte la Lituania, caso a sé, il resto sono, se ci fate caso, stati africani. Tornando alla grande decolonizzazione dei primissimi anni ’60 tutti questi stati dovevano inventarsi una bandiera, visto che politicamente i loro confini erano stati disegnati dai dominatori senza alcun rispetto per le varie etnie, o, se volete, nazioni originarie e storiche. E praticamente tutti si sono rivolti alla bandiera etiope, unico stato veramente africano, parlo dell’Africa nera, indipendente che ci fosse allora. Questa è la ragione del proliferare massiccio dei tre colori della bandiera etiope, normalmente messi in modo verticale con varie varianti, anche se ci sono stati, non vorrei sbagliare ma mi sembra Guinea e Mali, con bandiere perfettamente uguali. Nel libro di cui parlavo sopra l’autore parla del giallo, rosso e verde come dei colori pan-africani per antonomasia. Del resto conoscendo la storia delle bandiere poi è molto facile ricordarle. Per esempio: per ragioni religiose con i colori bianco, rosso, nero e verde associati a personaggi religiosi del massimo rilievo, questi quattro colori sono i colori dell’Islam. In più: gli stati arabi del Golfo Persico, noti per essere stati nella storia sempre più o meno stati pirateschi (quando erano sotto amministrazione britannica gli attuali Emirati erano conosciuti come Costa dei Pirati), avevano come segno distintivo sul mare una bandiera con una fascia verticale rossa sul lato asta e con il resto bianco. E infatti sia Bahrein che Qatar hanno proprio questa bandiera con il Qatar che in tempi recenti, per distinguersi, ha virato il rosso originale in amaranto, mentre sia Oman che Emirati hanno mantenuto sì la fascia rossa verticale, ma poi hanno aggiunto altri elementi. Dunque quando vedete una fascia rossa attaccata lato asta sapete che è uno stato del Golfo, per cui non avrete problemi a distinguere la bandiera degli Emirati dalle altre che, a chi non conosce la storia, sembrano simili e confondibili.

Per gli appassionati e per finire: c’è qualcuno che mi saprebbe dire quali sono le due (almeno io ne conosco solo due) bandiere al mondo che hanno i due lati diversi, che cioè, per essere assemblate, necessitano di due pezzi di stoffa e non di uno solo?