Finalmente! Eureka! Ci siamo!

Sono estremamente contento della vostra reazione al mio ultimo post. Avete evidentemente compreso che era stato scritto di “pancia”, in preda a una forte momentanea emozione (e rabbia nonché, mi scuserete, disgusto), per cui i vostri commenti sono stati tutti civili, ma soprattutto pertinenti al tema. Che Roda sia nel merito (per il resto rimane una bravissima persona e, spero, un amico) ormai un caso incurabile è ormai assodato (sembra un no-vax che protesta per partito preso e per non perdere la faccia), per cui lo do per disperso nella nebbia, ma gli altri mi siete piaciuti tutti. Ovviamente un grazie particolare va a Boki che (ero sicuro) mi ha appoggiato avendo la mia stessa storia linguistica in famiglia e dunque sa benissimo di cosa parlo, ma che lo ha fatto dall’alto dei suoi studi e delle sue conoscenze che mi hanno insegnato cose che non sapevo (che esistesse anche la versione POgačar è stata una novità) e già che ci sono gli faccio una domanda sull’argomento dello spagnolo parlato nelle “colonie” americane, spagnolo più arcaico di quello moderno. 

Del resto mi sembra un fenomeno normale: ogni segmento di popolo che emigra sviluppa la lingua molto più lentamente rispetto a quella della massa rimasta a casa (come insegna il Covid, più una cosa gira più muta, ma anche suppongo per nostalgia e attaccamento emotivo alle proprie radici – del resto che la lingua ebraica si sia conservata dopo 2000 anni di diaspora è già di per sé un miracolo), per esempio mi ricordo delle spedizioni di studio che andavano da Capodistria in Bosnia per studiare la strana isola di veneti emigrati laggiù tanto tempo fa e che parlano un dialetto vecchissimo, mecca per tutti i linguisti, cosa che sicuramente Boki conosce e studia. Per non dire degli islandesi che parlano ancora una variante di norvegese di 800 anni fa. La domanda è: la doppia ll pronunciata come đ in Argentina da dove deriva (ricorderete tutti che per un periodo Passarella veniva chiamato addirittura Passaregia)? Un giorno ho sentito Velasco dire en passant che è una variante dialettale limitata all’Argentina e all’Uruguay. Può essere?

Torno al tema per qualche chiosa finale. Vi racconto un aneddoto. Nel 1976 avevo appena fatto la patente e guidavo la 1100 bianca comprata di seconda mano da mio zio Duilio per 50 mila lire e la prima mia trasferta lunga da pilota autonomo la feci, con tutti patemi del caso, per andare a Zagabria per commentare la semifinale dell’Europeo di calcio fra l’Olanda e la Cecoslovacchia, rimanendovi poi fino alla finale per il terzo posto che per l’occasione vide in campo la stessa Olanda e la Jugoslavia. Lì fra l’altro in quei giorni conobbi Bruno Pizzul con cui trascorsi molto tempo conoscendo e apprezzando quella splendida persona che è. Il giorno della semifinale, martoriato da una pioggia biblica (e infatti di sera, quando l’arbitro concesse una pausa molto lunga ai giocatori prima di cominciare i supplementari, dissi una battuta che mi riuscì bene e che fu spesso citata: “Evidentemente anche gli arbitri hanno una mamma”), partecipai di mattina al briefing di routine per i telecronisti nel quale ci veniva spiegato il modo con cui si sarebbero effettuate le riprese televisive (numero e posizionamento delle telecamere, presenza e tempi dei replay e via dicendo), alla fine della quale si alzò un telecronista olandese e disse a tutti noi: “Ho appena parlato con il nostro mister e posso darvi la formazione che scenderà stasera in campo”. Il primo nome che eruttò (non trovo altri termini per descrivere il suono che uscì dalla sua bocca) fu ovviamente quello del portiere che suonò qualcosa come “Skraejfers” e dopo aver fatto mente locale capii che si riferiva a quello che i nostri telecronisti chiamavano “Sc’rivers”. Sarebbe stato ridicolo se avessi tentato di duplicare quanto sentito, ma decisi comunque che dire Skrajfers era sempre meglio che dire Sc’rivers. Almeno un olandese che mi avesse sentito avrebbe capito che sapevo il suo cognome e che mi ero se non altro sforzato di pronunciarlo nel modo migliore consentitomi dalle mie capacità linguistiche. Ed è stato così per il resto della mia carriera, una cosa alla quale mi sono sempre attenuto in modo ferreo, convinto che fosse l’unico modo per salvare capra e cavoli, cioè mostrare rispetto e interesse e contemporaneamente non spaccarsi la lingua. Allo stesso modo voler leggere Cruyff nel modo giusto è per noi impossibile, ma dire Kruaeiff invece di Kruif mi sembra lo stesso un bel passo avanti.

Non finisce qui. Il giorno della finalina mi avvicinò Pizzul per chiedermi come cavolo si pronunciasse il centravanti che la Jugoslavia avrebbe fatto esordire in nazionale quella sera e di cui non aveva mai sentito  parlare. Era un giovanotto molto ben piantato e dotato di ottima tecnica del Velež di Mostar di nome Vahid Halilhodžić. Partii da lontano spiegandogli prima di tutto che era un nome composto formato dalla designazione del ruolo sociale (Hodža, quello che gli albanesi scrivono Hoxha) e dal nome proprio, il tipicamente mussulmano Halil (che noi conosciamo per lo più come Khalil), per cui andava letto come un nome doppio con una pausa in mezzo, cioè: “Halil-hodžić”. »Ho capito«, fece. »Alìlodzic«. Ripetei per un paio di volte la pronuncia giusta, senza alcun tipo di successo, e alla fine mi arresi. Mi ricorda un po’ l’aneddoto che mi raccontava il collega della Rai slovena di Trieste Saša Rudolf che ai Mondiali del ’74 affrontò lo stesso problema quando dovette spiegare a Enrico Ameri come si pronunciasse il terzino del Sarajevo Hadžiabdić. Dopo ripetuti tentativi andati a vuoto Ameri, noto fascista nostalgico, sbottò: “Lo sapevo, durante la guerra avremmo dovuto farvi tutti fuori!”.

Per dire: eppure Pizzul è uno laureato in lingue ed ex professore di liceo, dunque dovrebbe essere più ricettivo. Niente da fare. Non ho mai capito questo rifiuto, quasi atavico, ancestrale, degli italiani di sforzarsi di parlare e pronunciare in modo corretto una lingua straniera. Un po’ avete tentato di spiegarmelo voi, ma penso che ci sia anche qualcosa d’altro. Io dal canto mio durante tutta la mia carriera, quando ero sul posto, prima di una partita andavo dal telecronista dell’altra squadra, gli mettevo sotto il naso la lista dei giocatori e chiedevo per cortesia che me li leggesse per capire come si pronunciavano. Era un’operazione che richiedeva non più di un minuto e che veniva espletata dal collega con piacere, proprio perché denotava interesse e rispetto. Non vedo perché mai un’operazione tanto veloce e facile non possa essere fatta da chiunque si trovi ad avere un microfono in mano. Cosa gli costa?

Vi chiedete se i telecronisti degli altri paesi sono più o meno rispettosi delle pronunce altrui rispetto a quelli italiani. Posso parlare per cognizione di causa, proprio perché è stato per 50 anni il mio mestiere e ho ascoltato miriadi di telecronache in tutte le lingue, anche e soprattutto quando ero sul posto e potevo sia parlare con i colleghi che ascoltarli al lavoro. Vale quanto ha detto Boki sulle lingue più o meno importanti. I telecronisti che parlano in lingue “mondiali”, inglese, spagnolo, francese, sono normalmente quelli peggiori semplicemente perché (alla Roda) se ne infischiano. Anche se ci sono eccezioni: ad esempio i telecronisti in inglese di Eurosport (che ascolto spesso e volentieri quando quelli italiani divagano, parlando di tutto meno che di quel che succede in quel momento) sono molto attenti alle pronunce e c’è uno di quelli che seguono il ciclismo che pronuncia perfettamente (per un inglese) tutte le lingue latine. Anche quello che segue gli sport invernali pronuncia correttamente i nomi stranieri, per esempio i nomi sloveni li pronuncia in modo nettamente migliore rispetto al duo Ambesi-Paone.

I tedeschi sono un caso a parte. Loro sono normalmente molto pedanti (ma va’), per cui si informano e sono quelli da seguire per avere un’idea di come si pronunci un nome esotico. Chiaro, avranno sempre il loro accento che ci fa ridere (come loro ridono dell’accento italiano, ovviamente), ma la sostanza sarà sempre corretta. Fra l’altro in 30 anni ho sentito solamente due persone arrivate da fuori e poi stabilitesi in Slovenia che parlassero lo sloveno, lingua molto difficile soprattutto grammaticalmente, in modo talmente corretto da non essere neanche sfiorati dal dubbio che non possano essere indigeni. Uno è Jakov Fak, il biathleta, che parla addirittura volendo anche un perfetto dialetto della Gorenjska, l’altra è la ex saltatrice in alto tedesca Britta Voros, sposata con il saltatore in lungo sloveno Borut Bilač (uno bravo, anche bronzo europeo a suo tempo), poi con il cognome sloveno anche campionessa d'Europa all'aperto, che parla uno sloveno perfetto con leggero accento lubianese. Per dire: i tedeschi, se vogliono, imparano benissimo le lingue straniere.

Per il resto vale il peso della lingua madre: se è insignificante, tipo, appunto, lo sloveno, i suoi telecronisti sono per forza poliglotti, per cui pronunciano in modo del tutto soddisfacente, anche i nomi italiani, se proprio volete saperlo. Chiaramente non c’è paragone sulla loro pronuncia dei cognomi italiani rispetto al viceversa. In generale la correttezza della pronuncia nei telecronisti è inversamente proporzionale rispetto all’importanza internazionale della lingua che parlano.

Cambio argomento e mi concentro su due spunti dati da Stefano. Il primo riguarda la famosa musica “parlata”. Si tratta di mettersi d’accordo su cosa si intende per musica, tutto qua. Per me musica è una successione di suoni modulati e da qui non mi muovo. Tutto il resto può essere arte sopraffina, ma non è musica. Che la musica sia nata prima del linguaggio verbale lo sono sempre stato convinto anch’io e penso che sia una cosa che si può dare per scontata. Per quanto ne so Omero e i suoi simili andavano in giro a cantare le storie che inventavano (non per niente si dice “cantastorie” e non “raccontastorie”). Come cantassero non si è mai saputo, ma che le due cose andassero insieme era pacifico. Per cui sono sicuro che se una poesia suona come musica è sicuramente molto meglio di una che non suona come tale, ma, ripeto, si tratta di tutta un’altra forma di arte. Forse la sintesi più potente delle due cose l’ha fatta Beethoven in quello che è secondo alcuni (me compreso) il più bel pezzo di musica mai scritto, leggi l’Allegretto della Settima sinfonia. Il cui tema principale, all’inizio una sola nota ripetuta di continuo secondo lo scandire della recitazione ditirambica, risveglia in tutti noi emozioni ancestrali che ci commuovono fino al più profondo dell’anima senza sapere perché. Di straforo, perché capiate quale sia la musica che è alla base di tutte le mie emozioni, se voglio piangere di commozione ascolto il tema del Terzo uomo (di Orson Welles) suonato alla cetra dall’autore, Anton Karas.

E poi c’e il tema basket. Stefano, hai battuto record che mi sembravano insuperabili! Hai stracciato il primato del contributo con il quale sono in più profondo, violento, incontenibile contrasto da quando esiste questo blog.

Cito: “Se si guarda la squadra vincitrice giocano in 8. Che fanno poche partite e tanti allenamenti. Si conoscono a memoria. Pochi o nulli infortuni. Adesso le squadre vanno incontro ad assenze di due o tre mesi da parte di 3 o 4 giocatori che vengono sostituiti con i gettonari a tempo.”

Appunto. Lo hai detto tu. Le squadre sono oggigiorno accozzaglie raccogliticce di giocatori che, anche volendo, lo concedo, non possono mettere assieme alcun tipo di gioco di squadra. Cosa che il basket dovrebbe essere. Per cui quando i giocatori si conoscevano a memoria il basket lo guardavo, capendo e apprezzando quello che facevano, mentre oggi che vedo solo casino inconsulto e incomprensibile, più di tre minuti (NBA), cinque (Lega A) e un quarto (Eurolega) di fila non riesco fisicamente a guardare.

Altra citazione: “Ha senso paragonare il basket di quegli anni con quello di oggi? Secondo me no, ma se proprio devo farlo direi che c'è molta più bravura diffusa oggi di allora e dal punto di vista atletico dai 40 cm si è passati al saltare un metro e più.”

Trasecolo. Ma chi cavolo te lo dice? E con quali dati? Ricordo sommessamente che proprio in quella Coppa campioni che citi il 18-enne Pero Vilfan della Jugoplastika, appena prelevato dal Maribor in cambio di Sunara, schiacciò in testa in contropiede al Charlie Yelverton da te tanto osannato. E nella Jugoplastika (a proposito: mi aggiungo con tutto il cuore al dolore per la perdita di Goran Sobin) giocava un tale Duje Krstulović, un 2 e 03  che aveva ufficialmente 1 metro e 06 di stacco da fermo. E per questo giocava. Perché andava in cielo a prendere palloni. Perché se fosse stato per il resto non avrebbe giocato. E ciò perché all’epoca in Jugoslavia, ma finanche nell’NBA, sceglievano per primi i giocatori che sapevano giocare e poi guardavano il loro potenziale atletico. Oggi si fa esattamente il contrario: si guarda quanto uno corre o salta e poi si guarda se magari sa anche giocare. Sono semplicemente i metri di reclutamento che sono stati stravolti ed è solo normale che in giro ci sia più fisicità. Cercano solo quella! Una volta poteva succedere che il mio amico Đorđe Kožul di Zara, appassionato sfegatato di basket, fosse tagliato dalle giovanili perché non aveva tiro, per cui poi si dette a tempo perso all’atletica, diventando il primatista jugoslavo del salto triplo e partecipando alle Olimpiadi. Oggi, visto quanto saltava, sarebbe stato subito designato come faro della squadra. Che poi non segnasse sarebbe stato insignificante.

La vetta (o il fondo più profondo) lo raggiungi quando dici che c’è molta più bravura diffusa oggi. Ma dove? Chi, di grazia? C’è Dončić, c’è quello straordinario tiratore che è Steph Curry. E poi? Io vedo anche nell’NBA gente che sul cambio di direzione perde la palla, che si palleggia sui piedi, che passa la palla nei ribaltamenti di lato direttamente in tribuna, vedo gente che non ha nessun tipo di controllo del corpo, per cui può giocare solo perché oggi è stata virtualmente abolita l’infrazione di passi, non vedo tecnica di passaggio, vedo strane tecniche arzigogolate di cambi di mano in palleggio (e non vedo mai l’unico cambio di mano che uccide l’avversario, quello davanti con finta e cambio di direzione), a parte il citato Dončić e Teodosić non vedo nessuno che sappia veramente passare la palla con i tempi giusti, insomma, ma di che c…o stiamo parlando?

Sì, ma una volta erano specialisti, mentre oggi sanno fare un po’ di tutto e sono molto versatili. Esatto: sanno fare un po’ di tutto, ma proprio nulla, niente, zero Kelvin, di veramente bene. Per la grazia di Dio, il basket rimane un gioco di squadra e in ogni compagine che ha obiettivi comuni ci sono i comandanti e gli esecutori, ognuno il più possibile specialista nel suo campo. Se non ci sono, non si può fare niente di buono. Siete tutti rugbisti. Quello che voi dite che è il grande progresso del basket odierno, dove tutti pretendono di fare tutto, è esattamente come se voi nel rugby pretendereste che i piloni vadano a giocare in trequarti-ala o il mediano di mischia andasse a fare il pilone o l’estremo si mettesse a fare il tallonatore. Ridicolo? Certo, e sommamente tragico se trasportato al basket.

Finisco qui con questo sfogo di livida rabbia. Ciò non toglie però che spero che siamo rimasti tutti amici e che, una volta passata la bufera, ci si possa rivedere al maggior numero di sconvenscion possibili. Quest’anno i due appuntamenti nei quali ci siamo ritrovati per due giornate bellissime sono sicuramente fra i più bei ricordi che mi porti nell’anno che viene. Ragazzi, che Dio vi benedica, non sapete quanto sono contento di questa bellissima abitudine. Passate le più belle feste possibili assieme ai vostri cari e ci rivediamo l’anno prossimo.