Subito un avvertimento: questo post è del tutto estemporaneo e chi pensa che in esso si parlerà di sport può subito passare a leggere altrove. L’altra volta volevo parlare poco di basket, visto che anche poco ne vedo, ma mi sono lasciato trascinare e alla fine il tutto era troppo lungo per parlare ancora di musica come avevo all’inizio intenzione di fare.

Però evidentemente fra noi sconvenscioners deve esserci una specie di collegamento telepatico, perché nei commenti del blog precedente Stefano mi segnala il concerto di Mark Knopfler e EmmyLou Harris a Los Angeles del 2006 che è adesso presente anche sul sito ufficiale di Mark Knopfler in forma integrale.

Dico anche perché è da tempo immemorabile presente una versione dello stesso concerto su un altro sito, concerto che è però spezzato nelle singole canzoni senza le pause intermedie. Va da sé che questo è uno dei concerti che preferisco di più fra tutti quelli della storia, che più mi entusiasma e commuove (i due bis finali “If This Is Goodbye” e “Why Worry”, come ho già scritto, mi fanno letteralmente squagliare) e dunque dico all’amico Stefano grazie per la segnalazione, ma sappi che, appena scoperta l’esistenza del concerto su YouTube, ho scatenato immediatamente le capacità di mia nipote che me ne ha fatto una versione in MP3 che da circa tre, quattro anni è da sempre presente in macchina e che praticamente ascolto a manetta ogni volta che sono in viaggio. Per la cronaca l’ho ascoltato per intero la settimana scorsa. All’epoca Mark e EmmyLou fecero tutta una serie di concerti in giro per il mondo per lanciare il loro album “All The Roadrunning”, ovviamente uno dei dischi che mi porterei per primo su un’isola deserta e che ascolto anch’esso spessissimo in auto, concerti nei quali, oltre alle canzoni dell’album, eseguirono anche molti dei loro successi singoli performandoli però in coppia con ciò aumentandone il valore. Se qualcuno non lo sa EmmyLou Harris è considerata forse la cantante che meglio esegue le armonie nei pezzi di altri cantanti. La sua versione di “Evangeline” nel mitico triplo album del Last Concert della Band è un highlight assoluto e non per niente Bob Dylan la volle per sé perché gli cantasse le armonie nel suo album “Desire” che include la famosa storia del pugile soprannominato Hurricane. Uno dei concerti della tournee si svolse a Verona e anche questo concerto lo si trova, non intero di fila, ma pezzo per pezzo, su YouTube e devo dire che è un’emozione assoluta quando Mark parte con il famoso intro di “Romeo And Juliet” e la gente estasiata di Verona, fra tutte le città del mondo la più perfetta perché vi si esegua una canzone con questo titolo, va letteralmente in brodo di giuggiole. E l’emozione dello stesso artista la si percepisce durante tutta l’esecuzione del pezzo in modo più che palpabile.

A questo punto colgo l’occasione per parlare di musica e stabilire una volta per tutte quale sia la mia visione di essa, cosa e soprattutto perché ascolto certe cose e altre invece mi fanno un totale baffo (indipendentemente, e lo sottolineo con veemenza, dalla loro oggettiva valenza artistica o finanche anche tecnica che possono essere sopraffine per il palato di tantissima gente, anche di oggettivi esperti, ma che a me continuano a fare un baffo – avrò o no il diritto di avere i miei gusti personali?). Questo perché tantissime volte c’è stato qualcuno che ha violentemente criticato quanto scrivevo in fatto di musica tentando di convertirmi verso cose delle quali, come detto, non me ne potrebbe fregare di meno, Ed è dunque venuto il momento di fare chiarezza per evitare in futuro diatribe del genere, per me straordinariamente stucchevoli e vuote che dal mio punto di vista lasciano il tempo che trovano.

Attenzione! Chi scrive ha vissuto, grazie alla madre eccellente cantante e maestra di piano, la musica dalla culla ed è sempre stata una parte fondamentale di tutta la sua vita. Ho cominciato a suonare il piano a quattro anni, rendendomi subito conto di non essere tagliato (dita troppo corte e lente, ma soprattutto strani inciampi improvvisi durante un’esecuzione) per arrivare a livelli decenti, per cui sì, il piano continuo ancora a suonarlo, ma in forma del tutto dilettantesca e rudimentale, mentre sono stato sempre bravo a cantare, accompagnando e facendo duetti con mia mamma mentre suonava i successi dell’epoca (Caterina Valente, Renato Rascel, poi Domenico Modugno), fin tanto che crescendo diventai la seconda voce solista del coro delle voci bianche del Conservatorio sloveno di musica, la Glasbena Matica. Con mamma ascoltavo di tutto: lei era appassionata di lirica e conosceva tutto Puccini a memoria, ma non disdegnava assolutamente la musica moderna dell’epoca, per cui, ripeto, già da piccolo ho ascoltato di tutto e di tutto mi sono fatto un’idea. Sono nato inoltre nell’epoca più giusta possibile per cominciare ad apprezzare da piccolo quanto veniva da oltre oceano e prima con Elvis e poi andando a ritroso con gli altri pionieri del rock and roll, e poi andando a ancora più a ritroso con il blues e dall’altra parte con il country che sono le basi del rock and roll, mi sono fatto una conoscenza musicale che mi ha visto pronto ad affrontare da adolescente l’esplosione della musica britannica con i Beatles, gli Stones, i Kinks, gli Yardbirds e chi più ne ha, più ne metta, mentre dall’altra parte dell’Atlantico arrivava l’ondata folk basata sul lavoro di Woodie Guthrie e Pete Seeger con la salita alla massima ribalta di Bob Dylan e di conseguenza di Joan Baez e di tutti gli altri straordinari interpreti di questo filone musicale (Roger McGuinn, Chris Hillman, Gram Parsons, Gary Crosby, Graham Nash, Stephen Stills, Neil Young…) che, inutile negarlo, è ancora adesso quello che comunque preferisco e che più mi appaga. Tutto questo per dire che di storia della musica, sia classica che pop, penso di saperne di più della maggior parte di voi, per cui sento un forte fastidio quando qualcuno vorrebbe rivelarmi con roboanti paroloni la scoperta dell’acqua calda.

In più sono uno molto curioso che vuole sapere di ogni cosa che gli interessa tutto quanto il possibile sulle sue origini, su come, dove e perché è nata in quel preciso modo e non in un altro. Ciò vale anche per la musica e in questa ricerca sono venuto a conoscere da una parte Robert Johnson e dall’altra parte Jimmy Rodgers e la Carter Family, cosa che mi ha condizionato in modo decisivo. Sono venuto infatti alla conclusione che la musica, più è spontanea, cantata e suonata con emozione e meno è contraffatta da trucchi musicali di contorno, cioè meno “raffinata” e “elaborata” è, più mi piace, anzi, in realtà è l’unica musica che mi piace veramente. E infatti per quanto riguarda la musica classica il mio idolo assoluto è Beethoven, e in sottordine Mozart, in quanto, per quanto elaborata e raffinata (stavolta senza virgolette) la sua musica possa essere, pur sempre si percepisce fisicamente quasi che alla radice di quanto scrive e compone c’è comunque l’emozione, il sentimento. Come vi ho già detto per me il massimo della musica classica è l’Allegretto della Settima Sinfonia e anche il passaggio fra gli ultimi due movimenti della Quinta. Sono passaggi musicali che, devo confessare, se sono del mood giusto, normalmente mi fanno piangere di commozione.

A questo punto uno potrebbe dire, allora sei un fanatico delle percussioni e dei suoni primordiali delle tribù africane o magari ascolti in estasi il didgeridoo degli aborigeni australiani. No, attenzione, sono un bianco europeo di origini alpine, centroeuropee, per cui la musica che ho nei geni è quella di questa zona del mondo, e dunque voglio sentire note musicali normali eptatonali e non certamente dodecafoniche, un ritmo ben preciso e una melodia. Quando invece ascolto roba più sveglia, parlo di rock and roll primordiale con la sua derivazione, ahimè di origini bianche, ma, ripeto, sono bianco e non vedo perché dovrei vergognarmi di esserlo, che è il rockabilly, la musica che più mi mette di buonumore, voglio capire la linea musicale e essere capace di replicarla nei miei recital solitari sotto la doccia. Tanto per dire quanto io odi le cose artefatte, quando voglio divertirmi canto con la voce più impostata di cui sono capace (sono abbastanza bravo a governare il registro di diaframma) “Torna a Surriento” e alla fine rido come un pazzo, dicendomi: “Vedi un po’, studiano e si fanno il sedere per anni per poi produrre ‘sta roba che a me dice poco più di niente”. Ed è proprio per questo che non mi interessa la musica lirica, non perché non produca bella musica, anzi a volte mi chiedo quanto potrebbe essere magnifica un’aria se uno la cantasse in modo normale, ma proprio perché mi sa tutto di finto, artificiale. A questo punto mi ricordo sempre dell’aneddoto che mi raccontò mamma di un’edizione dell’ “Aida” al Verdi di Trieste. Quando il tenore protagonista, persona dall’aspetto ben poco atletico, cominciò la sua famosa aria “Se quel guerrier io fossi”, prontamente dal loggione si levò poderoso il controcanto “Bel mona te sarìa!”.

Dopo aver dipinto questo ampio quadro delle mie preferenze e inclinazioni (sono curioso di sapere quanti hanno letto fino a qui) mi sembra che nessuno si sorprenderà quando dirò più in dettaglio cosa ascolto normalmente. Già detto del concerto di Mark e EmmyLou, che sono fra l’altro anche presi singolarmente due miei idoli assoluti, ci sono altri due concerti che ho fatto prontamente riversare su CD da mia nipote. Il primo è il concerto, di cui ho già parlato, di Carl Perkins a Londra nell’86 con ospiti Eric Clapton, Ringo Starr, George Harrison, Dave Edmunds, Roseanne Cash (per chi non la conoscesse la bravissima primogenita di Johnny Cash), concerto in cui ognuno si diverte palesemente e c’è sul palco una chimica straordinaria che porta a una musica che è la prima che vorrei sentire in paradiso, e il secondo è il concerto di Jerry Lee Lewis alla soglia degli ottant’anni tenutosi nei primi anni ’10 di questo secolo dal nome “Last Man Standing” nel quale un manipolo di vecchietti mostra ai giovani come si possa produrre musica incredibile a prescindere dall’età, se si è giovani di spirito. Il highlight assoluto è la versione di Jerry Lee assieme a Solomon Burke di una delle più belle canzoni a mio avviso mai scritte, e cioè “Who Will the Next Fool Be”, composta da Charlie Rich quando era ancora alla Sun Records e produceva musica di tutti i generi, prima di cristallizzarsi in un country abbastanza becero per pure ragioni commerciali (unica eccezione la splendida “Behind Closed Doors”). Ma neanche i duetti con Buddy Guy, Tom Jones, John Fogerty, Merle Haggard, Don Henley, Kris Kristofferson sono male, anzi, sono cose incredibili. Tanto più che nella house band la chitarra solista era suonata da uno neanche lui scarso di nome Ronnie Wood.

Passando ai dischi che porterei sull’isola deserta ho già detto di “All the Roadrunning”. Sempre di Mark Knopfler porterei sicuramente altri tre album, ovviamente “Brothers in Arms” coi Dire Straits, e poi due album da solista, “Golden Heart” e “Shangri-La”. Porterei con religiosa riverenza il leggendario album che fecero alla fine degli anni ’80 Dolly Parton, la stessa Emmylou Harris e Linda Ronstadt chiamato “Trio” che vinse una montagna di Grammy e nella quale le tre interpretano perlopiù vecchi motivi di “Mountain Music”, come la chiamano in America per indicare il country più basico e primordiale, in modo tale che, fino a che uno non le sente, non potrebbe mai immaginare che tre voci femminili possano fondersi in modo talmente perfetto da sembrare quasi sovrannaturale. Disco nato da un casuale invito che Dolly fece a Linda e EmmyLou, grandi amiche nella vita privata, ambedue rispettando e quasi invidiando l’una dell’altra le doti che ognuna avrebbe voluto avere per se stessa, di partecipare al suo show, nel quale le tre assieme cantarono in modo fantastico un tristissimo standard country, “The Sweetest Gift”. E da lì nacque l’idea di incidere quell’incredibile disco che poi ebbe un seguito una decina di anni dopo, prima che Linda dovesse smettere di cantare per tremende ragioni di salute, e cioè il manifestarsi del morbo di Parkinson. Fu una tragedia per la musica, in quanto a mio avviso Linda Ronstadt è stata la miglior cantante del 20.esimo secolo, fenomene della lirica comprese. Vedete per esempio la Callas cantare “It’s So Easy” di Buddy Holly come lo fa Linda? Mentre per quanto riguarda il contrario ascoltate, se non l’avete mai fatto, l’album di Linda “Canciones de mi Padre” nel quale interpreta alcune famose canzoni messicane e ditemi se non la ritenete capace anche nel campo delle voci artefatte di dare la paga a tutte, bastava che lo avesse voluto. Per chi non lo sapesse sua madre era messicana e dunque parlava lo spagnolo perfettamente dalla nascita.

Tornando ai dischi da isola deserta ancora due obbligatori, per eventuali altri bisognerebbe vedere quanti ancora potrei portare con me. I due obbligatori sono “Elvis Is Back” del ’61, il primo album inciso al ritorno dal servizio militare, disco che spazia fra tutti i generi musicali possibili, da “Are You Lonesome Tonight?” alla traccia finale che è una fantastica jam session nella quale Elvis si dedica al blues più puro con una magnifica versione di “Reconsider Baby”. Il secondo è “Abbey Road” dei Beatles col leggendario medley finale che si conclude con “The End” e con gli ultimi versi cantati assieme dai Fab Four: “And in the end, the love you take is equal to the love you make”, versi che mi fanno sempre venire i brividi.  

Per finire ancora due esempi di musica come la intendo io. Già detto della mia predilezione per il rockabilly quando voglio divertirmi e allora potrete capire la mia meraviglia quando tempo fa mi imbattei in un video girato a Koktebel’ in Crimea, e dunque ancora Ucraina, nel 2013, un anno prima dell’occupazione con successiva annessione da parte russa della Crimea. Lungomare con gente che passeggia. Sulla strada c’è un complesso di musicisti che suona musica rockabilly con davanti la solita custodia di chitarra aperta per raccogliere gli oboli dei passanti. Mai sentito nulla di simile! Il miglior complesso di rockabilly vero mai sentito, con un suono più puro e limpido rispetto addirittura ai pur formidabili Stray Cats. Ricerca. Si tratta di un complesso, di nome “WiseGuyz”, di ragazzi ucraini con il leader, cantante e chitarra solista di una bravura incredibile. Poi ho scoperto che in effetti sono considerati dagli appassionati la cosa migliore che in questo genere ci sia attualmente al mondo, e infatti, prima degli ultimi eventi, si esibivano regolarmente in tutta Europa, dall’Inghilterra, Germania e Olanda fino alla Spagna. Nel filmato (in realtà ce ne sono cinque, per un totale di circa 40 minuti di concerto) si erano divertiti a vedere l’effetto che faceva se si trasformavano in artisti di strada e dunque suonano dal vivo che più dal vivo non si può. E io ogni volta godo a ascoltarli.

L’altro esempio è ancora di rockabilly con un complesso di nome Black Cat Trio, formato da compassati signori inglesi di mezza età che suona per i vari pub e music lounge della provincia inglese. Sono bravissimi già di loro, ma la vera attrazione è la figlia del batterista (credo, se ho ricostruito i fatti che so in modo corretto – i filmati in rete sono di quasi 10 anni fa), una 14-enne di nome Donna che suona in modo eccellente il contrabbasso ed è la vera star del complesso. E infatti esiste un filmato di lei che a 11 anni, con l’orecchio attaccato all’altoparlante, copia nota per nota la linea del contrabbasso di “Rock This Town” degli Stray Cats. Ecco, quando vedo che qualche giovane si dedica alla musica come la vedo io mi si apre sempre il cuore. Forse il mondo è ancora salvabile e forse in un futuro alle prossime generazioni sarà servita nuovamente musica vera e non rap, house o hip-hop. O, peggio ancora, qualche creazione in studio costruita con infiniti aggiustamenti computerizzati e poi spacciata per spontanea. Se a qualcuno interessa sempre su YouTube c’è un sito, Wings of Pegasus, nel quale un giovane chitarrista inglese spiega e analizza con tanto di oscilloscopio e analisi delle singole tracce di ogni registrazione ogni tipo di esibizione musicale a cui può accedere tramite la rete. E, se da una parte arriva alla conclusione che le voci dal vivo di Julie Andrews e del trio succitato in “The Sweetest Gift” sono di livello quasi troppo perfetto per essere vere, dall’altra parte fa una magnifica cernita delle ultime produzioni di successo, arrivando alla conclusione che, pur fra tante gemme che per lo più passano inosservate, quasi tutta la produzione attuale di successo è inesorabilmente prodotta con abili manipolazioni acustiche in studio.