Premessa: per tutto quanto scriverò d'ora in poi valgono in modo ferreo i tre principi enunciati nel post precedente, dunque, per favore, non dimenticateli mai.

Partiamo: l'NBA, quando nacque, fu vista come una sublimazione, un completamento, del basket di college. Sembrava solo normale che un atleta (non solo cestista), una volta finiti gli studi, a 23 anni, appena alla soglia della maturazione sia atletica che soprattutto umana, dovesse poter continuare a praticare e sviluppare quanto imparato al college. Per cui i valori, la cornice culturale, che sottintendevano l'attività professionistica, erano quelli del college, e dunque, diciamocelo brutalmente, appartenevano alla sfera della gente benestante, ovviamente principalmente bianca. E ci volle un Red Auerbach, con tutto il suo carisma, per abbattere, con la sua famosa frase: "Non mi interessa se è bianco, nero, o a pallini rossi, a me basta che sappia giocare a basket" una barriera che sembrava assolutamente naturale. E non per niente i primi grandissimi giocatori americani di colore, da Bill Russell per finire addirittura con Dr. J e Magic Johnson, erano in realtà, per così dire, bianchi dipinti, cioè ragionavano secondo schemi tipici della cultura WASP (Chamberlain no, ed infatti guarda caso ebbe sempre stampa contraria). Ad un dato momento, con l'ovvia emancipazione della gente afroamericana, cominciarono ad arrivare personaggi che erano contemporaneante dotati sia di grande intelligenza umana che di orgoglio e consapevolezza delle proprie origini culturali. Non solo, ma essendo, per così dire, dell'età di mezzo, conoscevano perfettamente anche la cultura dominante e sapevano benissimo come muoversi in quel contesto per massimizzare il proprio impatto anche mediatico. I primi nomi che vengono in mente sono ovviamente quelli di Michael Jordan, di Charles Barkley e di Shaquille O'Neal. (Per continuare a leggere cliccare sotto su "leggi tutto")

L'NBA colse la palla al balzo e, non so quanto consapevole di quello a cui andava incontro, cavalcò la tigre operando una sterzata a 180 gradi trasformando il basket nella sublimazione, per dirla in breve, del gioco da playground, del gioco con regole tutte sue, che viene praticato in un contesto sociale e culturale ben definito, che insomma col basket di college non ha proprio nulla a che vedere. E, sempre detto brutalmente, in un ambiente del genere un bianco, o comunque uno estraneo a quel tipo di contesto sociale, è un evidente pesce fuor d'acqua. O comincia a scimmiottare con esiti patetici i modi di fare della maggioranza, o viene semplicemente escluso. Siamo dunque più o meno nella fase nella quale era la musica, quando nei club di Harlem o nei honky tonk del profondo sud un avventore bianco venuto per ascoltare la musica che vi si suonava era visto con sospetto, se non con malcelato fastidio, specularmente ad un nero che provasse ad entrare in un bar di Nashville per ascoltare il country – ricorderete tutti l'esilarante scena di quando i Blues Brothers tentarono di cantare il soul in un bar frequentato da cowboy. E allora perché i bianchi che vengono dal resto del mondo hanno comunque successo? Facile, perché hanno imparato a giocare nei loro Paesi, col loro bagaglio culturale, senza il martellante condizionamento che subisce un giovane bianco americano che già da piccolo vuole, per poter essere accettato, fare come i compagni più scuri senza esserne capace sia mentalmente che fisicamente.

Poi però nella musica avvenne un fatto esaltante. Le barriere caddero, ci fu a metà degli anni '50 del secolo scorso il tanto agognato crossover di generi e dalla commistione dei più disparati generi musicali nacque la miglior musica popolare che il mondo avesse mai sentito. Fu così possibile che una Janis Joplin o un Eric Clapton potessero cantare il blues a modo loro senza creare scandalo, non solo, ma generando qualcosa di completamente nuovo che pur nella loro immensa grandezza un Muddy Waters, un John Lee Hooker o un B.B.King mai avrebbero potuto produrre. Fu così possibile che un Chuck Berry rivoluzionasse il rock'n'roll mischiando il country al blues, fu addirittura possibile che Ray Charles rendesse immortali alcuni anonimi brani country. Per non parlare del mio amato Elvis che scardinò tutte le barriere cantando, lui bianco, praticamente solo pezzi neri che la maggior parte dell'America mai neppure immaginava potessero esistere.

Ecco, secondo me, al basket NBA serve questo passaggio. Serve semplicemente che i bianchi, sembra paradossale, prendano coscienza di esserlo, ritornino a coltivare le doti a loro più congeniali, serve dunque che l'NBA si "meticci" (schiarendosi) prendendo il meglio da dovunque venga. Prima o poi capiterà, ne sono certo. Ed allora ritornerò a guardare con gioia le partite. Certo, guardando la mia carta d'identità devono sbrigarsi.

Per finire: cito Massimo Oriani dalla Gazzetta di oggi: "La frustrazione di LeBron sarebbe anche legata al fatto che a Miami non gode del trattamento preferenziale che gli veniva invece concesso a Cleveland. Il suo entourage è stato tagliato fuori, gli allenamenti non vengono fissati in base alle sue esigenze, non gli viene permesso di raggiungere il giorno successivo la squadra per far bagordi nella città dove ha giocato." E questo sarebbe uno dei più grandi di sempre? Con questa testa (di cosa, lo sappiamo tutti)? Con queste abitudini? Direbbe Aldo Giordani: che vada a ramazzare il pelago. Dico io: vada ad espletare i suoi bisogni corporei di tipo solido.

Per me non esiste più.