La prima domanda che sorge angosciosa per uno come me che di mestiere fa il giornalista e le cose le dovrebbe sapere è: quando hanno abolito la regola che nelle Final Four dell' Eurolega due squadre della stessa nazione dovrebbero incontrarsi in semifinale? Ho visto sul sito ufficiale che sono confermate CSKA-Panathinaikos (finale anticipata) e Olympiacos-Barcellona, per cui la cosa mi lascia perplesso. Stando così le cose si starebbe veleggiando verso una finale russo-iberica, sempre che Pascual riesca a non perdere contro Ivković, cosa tutt'altro che da escludere perché la fantasia dell'uomo è infinita. Che il CSKA possa perdere contro il Pana, per quanto Obradović possa escogitare terribili marchingegni per mandare in confusione Kazlauskas, mi sembra onestamente altamente improbabile, in quanto il CSKA ha in campo cervelli, leggi Teodosić, Krstić e Kirilenko che possono da soli trovare via via le giuste contromisure. E, ripeto, solo il CSKA può perdere l' Eurolega, in quanto gli altri possono solo sperare che grippi nella singola partita. Altrimenti non c'è storia.

Un po' come solo Kentucky poteva perdere quest'anno le finali NCAA. Era troppo forte ed infatti devo confessare che mi sono sentito molto orgoglioso quando, dopo la semifinale vinta contro Louisville, mi sono chiesto come mai era riuscito a vincere avendo Pitino vinto la battaglia in panchina a mani basse. Poi ho scoperto che Calipari era arrivato alle Final Four varie volte perdendo anche in passato partite già vinte. Il che ha solo confermato la mia sensazione che sia un grandissimo allenatore in fatto di reclutamento ed assemblaggio della squadra, ma che poi mostra molti limiti in panchina. Un'altra dimostrazione che fare il coach vuol dire avere molte doti molto diverse fra loro che non tutti possiedono. Ci sono, appunto, i maghi nello scoprire talenti veri e metterli tutti assieme al servizio della squadra trovando la chimica giusta che però in panchina mostrano grossi limiti (Skansi, Ćosić, per limitarmi agli esempi che conosco), come dall'altro canto ci sono coach che valutano in modo almeno dubbio i giocatori che prendono, ma che poi in panchina sono degli strateghi, ma sopratutto tattici, sublimi. Il primo nome di questo tipo di coach che mi viene spontaneo alla mente è quello di Bob Knight. A proposito un altro motivo di autogratificazione personale è stato quando tempo fa, seguendo una partita dell'NCAA su ESPN, ascoltavo estasiato il commentatore tecnico che spiegava in modo piano, semplice ed essenziale le fasi cruciali del gioco e delle singole azioni focalizzandosi sulle stesse cose che vedevo anch'io, ma non sapevo spiegarmi, mentre lui me le chiariva una dopo l'altra con straordinaria lucidità e mi dicevo: “ma chi è 'sto fenomeno?Era Bob Knight. E devo dire che la mia stima per questo incredibile personaggio è salita a livelli che non pensavo possibili. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto") 

Mi rifaccio vivo un po' in ritardo e mi scuso. Le ragioni? Una che ero impegnato nei vari fine settimana quando si avrebbe più tempo per scrivere, un'altra che aspettavo di avere più carne al fuoco, leggi sapere come sarebbero finite le prime partite dei quarti di Eurolega e chi si sarebbe qualificato per le Final Four dell' NCAA, l'ultima e la più importante che mi mancava l'ispirazione, che cioè non sentivo la necessità di dire la mia su alcunché.

Ora mi avete dato un assist straordinario: la discussione sull'evoluzione del ruolo di play. Allora: per prima cosa bisogna avere chiare alcune cose, per sapere bene di cosa si parla. Come forse saprete, quello che noi intendiamo per playmaker nel basket americano non esiste. Esiste cioè la parola, ma si riferisce alle capacità singole del giocatore che dal loro punto di vista può giocare in un ruolo qualsiasi, mentre quello che noi intendiamo per play, cioè il numero uno dei cinque, loro lo chiamano semplicemente point guard, cioè guardia che gioca di punta, cioè dietro agli altri. La loro definizione riguarda dunque il ruolo quasi topologico del giocatore e non c'entra con la sua capacità di costruire il gioco. Così, detto di sfuggita, loro chiamano il giocatore in posizione di centro post, cioè semplicemente palo, mentre per noi è pivot, dal francese perno, e non v'è chi non veda che già dalla definizione noi attribuiamo al pivot un ruolo nella costruzione del gioco che in America sparisce. Devo dire che mi sono sempre chiesto quale valore e quale significato anche storico sottenda a questa differenza e da cosa dipenda. Non ho mai saputo trovare una risposta: in tutti gli sport di squadra c'è bisogno di uno, se non di più playmaker. La pallavolo ha il palleggiatore, la pallamano il terzino centrale, l'hockey il centro, cioè il componente centrale della linea d'attacco che è il vero perno attorno a cui si creano i giochi, il rugby ha il mediano di apertura, il football il quarterback in attacco ed il linebacker in difesa, addirittura il calcio ha bisogno del play, per rimanere in Italia da Antognoni a Pirlo, per non parlare dei vari Didì, Bobby Charlton, Cruyff ovviamente, forse il più grande di tutti (a parte Di Stefano, di cui però mi ricordo pochissimo), Giresse (a dire il vero quella Francia aveva anche Tigana) finendo ovviamente con quello straordinario play da cineteca che è Xavi. Sempre nel calcio serve anche il play difensivo che una volta era per definizione e ruolo il libero e la mente non può non andare subito a quello straordinario e sempre compianto giocatore che era Gaetano Scirea (e Beckenbauer dove lo mettiamo?). Forse la ragione potrebbe annidarsi nella concezione stessa che gli anglosassoni in generale e gli americani, gente di frontiera, in particolare, hanno della gestione di un gruppo, che cioè comanda quello più capace indipendentemente dal ruolo gerarchico che ricopre. Noi Europei, più disciplinati ed irregimentati, abbiamo più facilità a digerire il concetto che in un gruppo ci sia comunque un caporale che comanda a prescindere dalle sue capacità rispetto a quelle di coloro che gli sono sottoposti. La cosa, ripeto, mi ha sempre intrigato e sono aperto a qualsiasi tipo di ipotesi plausibile che venga espressa. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")

Onestamente non so di cosa scrivere. Succede. Ma devo farlo perché se no qualcuno potrebbe pensare che mi sia dimenticato di contribuire i miei pensieri ad un blog che stimola discussioni, che insomma raccoglie tante persone perlopiù benpensanti per i quali il basket rimane passione e tutto sommato amore.

Non so di cosa scrivere perché leggendo i vostri commenti vedo che continuate a pestare il tasto sull'NBA della quale, devo dire, in questi ultimi tempi non se esattamente niente, per cui proprio non posso seguire quanto andate dicendo. Ritornando a quanto detto nel post precedente un giorno mi ero violentato per aggiornarmi su quanto succede nel campionato più bello del mondo. Detto di sfuggita mi ha fatto molto sorridere per la sua incongruità il commento di un intrufolato adoratore senza se e senza ma del campionato più bello del mondo (ripeto apposta – non criticatemi, è una specie di figura retorica per sottolineare il sarcasmo) che mi rimprovera che, se una cosa non mi piace, basta non guardarla. Senza notare l'illogicità della frase, nel senso che, per giudicare che una cosa non piace, bisogna prima conoscerla e dunque vederla almeno un paio di volte. E, credetemi, nella mia lunga vita, di NBA ne ho vista in totale più di voi giovani che la seguite avidamente, nel senso che in tanti anni le mie ore di visione dell'NBA, prima che le raggiungiate, dovrete lasciar passare ancora molto tempo. Insomma, mi sono sforzato di vedere una partita fra i Clippers e San Antonio (grazie per il richiamo sulla spiegazione che Chaps sta per Chaparrals) ed ho visto nel finale di una partita punto a punto i Clippers prendere un vantaggio apparentemente decisivo, salvo poi, nel marasma totale della squadra avversaria, per inciso non credevo che Tim Duncan fosse "tanto" ormai un ex-giocatore ricordando le lezioni di basket che dava a cavallo del secolo, vero ultimo dei mohicani, mancare in serie l'occasione di dare la mazzata decisiva, perché il loro idolatrato playmaker, uno che non si sa bene quale sia il nome e quale il cognome e che viene soprannominato con una sigla sinistra che ricorda i robot di guerre stellari (coincidenza? purtroppo non credo), continuava ad intestardirsi in stucchevoli e snervanti uno contro cinque con i commentatori che andavano in solluchero quando dopo enne tentativi miseramente falliti riusciva finalmente con un triplo e mezzo carpiato indietro con tre avvitamenti e mezzo, coefficiente di difficoltà non contemplato dalle tabelle internazionali, a segnare per miracolo. Ed anche perché il più grande saltatore in alto della storia e probabilmente in potenza il decathleta più forte mai apparso sulla faccia della terra mostrava tutta la corda tirando in modo orribile i tiri liberi, che neanche Nosov ai bei tempi. Alla fine comunque San Antonio aveva a meno tre l'ultimo attacco a pochi secondi dalla fine, per il quale chiamava il canonico timeout. Rimessa: palla al tiratore designato che perde la maniglia e si lascia sfuggire la palla in modo ridicolo. Rimessa per i Clippers quando mancano sì e no quattro-cinque secondi, se non meno. Vinta? No. Il famoso robot da guerre stellari combina una frittata incredibile e per rimediare la spiaccica anche contro la parete nel senso che passa la palla in mano nientemeno che al tiratore designato degli avversari di cui sopra che stavolta non rifiuta un simile regalo ed imbuca la tripla del supplementare nel quale poi ovviamente i Chaps vincono. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto").

L' amico Ferrari da Cremona mi ha mandato una mail con un richiamo all'articolo di Aldo Oberto apparso su Basketdaily in cui parla del pick and roll. Con uno stile più asciutto, didascalico e sicuramente più comprensibile dice esattamente quanto ho detto io la settimana scorsa. Ovviamente, visto che la pensiamo esattamente allo stesso modo, non potrei essere più d'accordo. E dunque, se non credete a me (visto che ero un coach di giovanili e categorie infime), credete almeno a lui. E su questo argomento penso basti.

Piccola chiosa, comunque: sono violentemente in disaccordo e sono pronto a morire per la causa con coloro che sottovalutano, o addirittura trascurano, la correttezza tecnica dell'esecuzione di questo fondamentale di squadra che, come tutti i fondamentali, meglio è fatto, meglio riesce. Dunque un pick'n'roll fatto alla carlona non serve. E, ripeto, il timing di tutta la sequenza deve essere assolutamente impeccabile. Su questo non accetto discussioni e sono pronto al duello all'arma bianca, o quella che sceglie il nemico. E nessuno ha detto che il bloccante deve sempre tagliare a canestro. Deve però obbligatoriamente essere la prima opzione, la quale viene omessa se la difesa si adegua in anticipo. Sono due cose totalmente diverse. E un'altra cosa che si vede sempre meno, praticamente mai: quando, dopo la consueta patetica escursione a metà campo del lungo in funzione spaventativa di aiuto (movimento che non capirò mai: il mezzo passo per togliere il tempo è ovvio, come insegnava Bobby Knight, ma l'escursione ben sopra la linea della palla mi sembra semplicemente idiota), il bloccante, rimasto solo, ha la geniale idea di tagliare a canestro senza rimanere fermo lì e arriva l'aiuto in rotazione di un terzo difensore, non vedo mai scarichi brevi all'uomo lasciato solo dall'aiutante, ma solo scarichi in angolo per un tiro da tre. Ma due punti con un facile tiro dalla media, magari di tabella, fanno veramente tanto schifo? (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")

Vorrei per prima cosa chiarire un malinteso che mi sembra sia maturato in chi mi legge: non ho assolutamente nulla in contrario nei confronti del pick and roll. Sta scrivendo uno che all'età di 20 anni, quando andò (da giocatore!) con la sua squadra in collegiale a Rovigno, si fece una settimana esclusiva di solo pick and roll agli ordini del coach della femminile dell'Olimpija di Lubiana (buonissima Serie A jugoslava, ai tempi). Fra l'altro vedi caso il suddetto coach era il compagno di vita della mia seconda miglior amica dell'infanzia e compagna di classe alle elementari che poi, trasferitasi a Lubiana, si diede al basket arrivando addirittura a giocare una partita in nazionale. Si vede che il basket era nel mio destino. Ci facemmo un mazzo enorme, in quanto l'uomo, pignolo fino all'inverosimile, stava ore e ore a correggere la posizione dei piedi del bloccante (blocchi dorsali obbligatori! - quelli che se li fai oggigiorno pensano che sei sbarcato da Marte) e a insistere sul timing giusto, che doveva essere preciso al decimo di secondo, del passaggio del portatore di palla sul blocco, ma soprattutto del momento in cui il bloccante doveva completare il giro col tagliafuori sul difensore e scattare a canestro.  (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto") 

"Nel caso di un artista la predisposizione, il famoso talento, cos'altro è se non una particolare configurazione dei neuroni che fa sì che il suo cervello abbia un'inclinazione maggiore rispetto al resto dell'umanità verso una specifica attività? Ed il cervello dove sta? In pancia? Ed è sempre il cervello che fa sì che questa predisposizione possa o meno venir sviluppata nella sua pienezza e che uno diventi un campione nel suo campo. Nello sport vale lo stesso con la differenza che qui il lato voglia, abnegazione, caparbietà, capacità di imparare dai propri errori, umiltà di sapere che non si finisce mai di imparare, insomma tutte queste doti caratteriali che sono lo spartiacque fra il mediocre ed il campione, sono ancora più importanti perché il gesto tecnico lo si può imparare con un'infinità di ripetizioni (che però devono essere fatte!), per cui avere il gesto tecnico già nel sangue è sì di aiuto, ma non certamente fondamentale."

La citazione che avete letto è semplicemente un copia ed incolla del mio precedente post. E quando si continuerà a dire che la testa non è tutto per quanto si riferisce al talento continuerò a proporlo come un mantra fino allo sfinimento o mio o vostro. Pensavo di essere stato chiaro, ma evidentemente non è stato così. Per cui quando continuo a leggere che sì, la testa è importante, ma che bisogna comunque avere predisposizione, "talento" secondo un termine abusato, onnicomprensivo e molto vago, ma ci tornerò su fra pochissimo, non posso che ribadire che la coordinazione, e nello specifico la predisposizione a fare anche spontaneamente movimenti che per altre persone meno dotate richiedono anni di duro studio, è per definizione una cosa che deriva direttamente da come sono strutturati i nostri neuroni, che risiedono nel cervello, il quale cervello sta nella testa. Appunto. Come volevasi dimostrare.

Come continuo a ritenere, e, ormai mi conoscete, non c'è persona al mondo che possa convincermi del contrario, in quanto trattasi di convinzione tauceriana, che la seconda parte della citazione di cui sopra sia ancora, e di molto, più importante rispetto alla prima. Una predisposizione che non viene sviluppata dal lato cosciente del nostro cervello è una cosa sterile che non produrrà mai nulla, come, lasciatemi un po' di poesia, un seme di sequoia, se lasciato seccare, rimarrà per sempre simile, tanto da essere quasi indistinguibile, a un seme di ortica, vanificando tutto il potenziale spaventoso che aveva all'inizio di diventare una delle piante più maestose che ci siano. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto") 

Uno dei grandi vantaggi che si hanno a lavorare a TV Capodistria, per come è strutturato il nostro lavoro, è che si deve comunque avere un'infarinatura di qualsiasi sport ci sia al mondo. Vista l'esiguità del nostro numero è prassi da sempre che a redigere le notizie giornaliere del TG sportivo sia una sola persona, che viene lasciata sempre sola ed abbandonata, per cui o conosce un po' di tutti gli sport oppure è semplicemente fregato. Personalmente ho fatto anche tantissime telecronache di vari sport, cosa che diventa ancora più acuta quando si devono seguire manifestazioni sportive tipo Olimpiadi, dove 5 giornalisti devono seguire 25 sport diversi e dunque bisogna fare di necessità virtù e acquisire una qualche conoscenza dello sport che dovrai seguire. Ciò ovviamente porta al fatto che, dovendo seguire più o meno tutto quello che succede a livello agonistico, uno entra in contatto con tutti gli sport col risultato che certi cominciano a piacergli, per cui continua a seguirli ed a informarsi, e certi altri proprio non gli vanno giù e non li segue più. Personalmente sono tanti gli sport che non mi attirano, per cui, se a qualcuno interessa, dirò che quelli che mi piacciono, oltre ai miei "istituzionali" basket, nuoto e tennis, sono, oltre al golf di cui ho già parlato, degli sport di squadra soprattutto l'hockey (su ghiaccio, ovviamente, gli altri, non me ne vogliano gli appassionati, mi sembrano tutti dei surrogati, compreso quello sport antico e nobilissimo che è l'hockey su prato) e il football americano, degli sport individuali invece tutti quelli che presuppongono straordinarie doti mentali, sia di creatività che di capacità di soffrire e di dare sempre il meglio di se stessi andando a volte anche oltre ai propri limiti, più precisamente del primo gruppo tutti gli sport della racchetta (tennis tavolo, badminton) e quelli prettamente mentali (dagli scacchi allo snooker) e del secondo, oltre ovviamente alla regina degli sport, l'atletica, lo sci, sia alpino che di fondo assieme al biathlon, ed il canottaggio in primis. Ci sarebbe anche la ginnastica artistica, ma ai miei occhi ha regolamenti troppo astrusi, per cui non riesco a capire quanto e perché uno sia forte e la cosa mi dà tantissimo fastidio, ed io sono fatto in modo tale che, quando una cosa non riesco a capirla, non mi interessa più. (Per continuare a leggere clicca sotto su leggi tutto)